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venerdì 27 novembre 2015

Non Devo Chiedere Scusa alla Fallaci


Travaglio: “Scuse alla Fallaci? 
No, non era una grande giornalista, 
aveva un rapporto soggettivo con la verità”

“Chiedere scusa a Oriana Fallaci? No. Era una grandissima scrittrice, ma non una grande giornalista, 
perché aveva un rapporto con la verità piuttosto soggettivo“. Così il direttore de Il Fatto Quotidiano, 
Marco Travaglio, durante Otto e mezzo (La7),
 replica ad Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, 
che invoca la richiesta di scuse alla scrittrice fiorentina, scomparsa nel 2006. “Non c’era un intervistato di Oriana Fallaci che si riconoscesse nelle interviste” – spiega Travaglio – “perché lei intervistava sempre se stessa. Scriveva sicuramente da Dio, il che l’autorizzava a dire anche delle cose molte iperboliche, come quando affermò che, se avessero costruito una moschea a Colle Val d’Elsa, l’avrebbe fatta saltare in aria. Se questa è la civiltà occidentale che dobbiamo difendere, ho i miei dubbi. Quelle della Fallaci erano provocazioni, ma l’errore è averla scambiata per una politologa e non averla considerata una scrittrice.
 Lei” – continua – “individuava come via per uscire da questo incubo del terrorismo la guerra di civiltà. Purtroppo è stata presa in parola. Blair ha anche chiesto scusa per la Guerra del Golfo e, scoperchiando il vaso di Pandora in Iraq, con quelle due guerre sciagurate, che erano esattamente nella linea Fallaci, ci sono stati un milione di morti civili e si sono decuplicati gli attentati in tutto il mondo. Deve chiederci scusa chi le ha fatte quelle guerre, come Bush, Berlusconi, quelli del centrosinistra che hanno confermato le missioni, perché oggi siamo 10 volte più insicuri e minacciati di 15 anni fa”. Sallusti ribatte: “Grazie a quelle guerre Al Qaida non è più una minaccia per il mondo come prima. Sulla guerra in Iraq si può discutere all’infinito, è ovvio che non si può esportare la democrazia, soprattutto in una civiltà che è ferma al Medioevo rispetto alla nostra“. Insorge la conduttrice Lilli Gruber: “Non è proprio così in Iraq”. “Una civiltà dove una donna non può guidare perché sei donna è al Medioevo”, controbatte il direttore de Il Giornale. “L’Iraq non c’entra assolutamente niente” – replica Gruber – “tu parli dell’Arabia Saudita, alleato preziosissimo degli Usa da sempre e anche dell’Occidente“. Il battibecco, che coinvolge anche la filosofa Gloria Origgi sul presepio come simbolo dei valori occidentali, dura per qualche minuto. 

Travaglio analizza poi l’ipotesi di un intervento militare dell’Italia in Siria e si sofferma sulla gestione del fenomeno migratorio in Italia: “Qui c’è la classica sottovalutazione della sinistra nei confronti dei problemi della sicurezza e dell’intelligence. 

Dall’altra parte ci sono quelli, come Salvini e tanti altri, che pensano di combattere il terrorismo in tv 
tutte le sere, insultando gli immigrati, soprattutto musulmani. La soluzione? Fare le cose serie. Scremare i clandestini, mandarli via, ma farlo veramente, non come facciamo da 20 anni. Quelli di cui non si sa il nome vanno identificati” – prosegue – “e quelli che hanno diritto di stare qui li trattiamo bene“. “Stai dicendo cose di destra che sottoscrivo completamente”, replica Sallusti. “Non so se sono di destra o sono di sinistra” – spiega Travaglio – “negli Stati seri funziona così. Credo che il califfo al-Baghdadi stia tifando per coloro che, vomitando ogni sera insulti contro gli islamici e gli immigrati, gli regalano gratis decine di migliaia di potenziali adepti i quali, prima o poi, a furia di essere trattati a pesci in faccia e a calci nel sedere, scopriranno che qui per loro non c’è nulla da perdere. E quando uno non ha niente da perdere, può addirittura arrivare al punto di voler farsi esplodere in un ristorante, in una sala concerto o in uno stadio”

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lunedì 23 novembre 2015

Gesù sposò Maddalena


Gesù sposò Maddalena  
Scritto in siriaco un codice del 570 d.C. 
su pergamena sarà presentato alla British Library


Un altro tassello fortifica la ancora traballante tesi che Maria Maddalena fosse la moglie di Gesù e la madre dei suoi figli. Un libro scritto nel 570 in siriaco su pergamena, e ora custodito alla British Library, racconta una storia diversa da quella dei quattro Vangeli canonici. Ma il numero di antichi documenti che conferma questa tesi continua a crescere, e decine di seri studiosi vi si stanno dedicando senza pregiudizi. Alla British Library terrà una conferenza stampa,
 e si conosceranno altri dettagli.  

Il libro proviene da un monastero egizio ed era stato acquistato nel 1847 dal British Museum. Probabilmente si tratta di una traduzione dall’aramaico di un testo più antico. Redatto in 29 capitoli, racconta la storia di Joseph, un giovane molto noto all’epoca, conosciuto dall’imperatore Tiberio e dal faraone d’Egitto (forse Natakamani), che lo considerava figlio di Dio. A 20 anni Joseph va in sposo ad Aseneth, che gli dà due figli: Manasseh ed Ephraim. Simcha Jacobovici, giornalista investigativo israeliano che scrive anche sul New York Times, e Barrie Wilson, professore di ricerche religiose a Toronto, hanno studiato per sei anni il manoscritto e raccolto le loro deduzioni nel libro The Lost Gospel, il vangelo perduto.  

In una delle prime pagine dell’antico testo il misterioso autore avverte che tutto quello che segue è scritto in un codice che va interpretato. I riferimenti cristiani contenuti nelle pagine sarebbero però così tanti che non è necessario essere Robert Langdon per capire che i nomi di Joseph e Aseneth nascondono quelli di Gesù e Maria Maddalena. Nel testo si narra che alla donna, dopo la morte del marito, viene somministrata l’eucarestia, «il pane e il calice della vita». Gli unici quattro Vangeli autorizzati dalla Chiesa dopo le riforme di Costantino non raccontano nulla della vita di Gesù tra la sua infanzia e l’età matura, un periodo nel quale, per un «rabbi», sarebbe stato obbligatorio sposarsi. Ma la storia di Joseph e Aseneth sarebbe raccontata anche in altri manoscritti, sopravvissuti alla sistematica distruzione dei Vangeli apocrifi solo grazie al fatto che celavano la vera identità dei due sposi. Anche il testo della British Library non sembra però sfuggito alla censura: alcune pagine sono state vistosamente strappate via.  

Due anni fa la docente di Harvard Karen L. King aveva annunciato la scoperta di un frammento di papiro in copto di uno di questi testi perduti, nel quale si legge: «E Gesù disse loro: mia moglie…». Ma secondo Jacobovici e Wilson basta anche solo scorrere i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni per convincersi che Maddalena aveva un ruolo di primissimo piano accanto a Gesù. Assiste alla crocifissione, alla sepoltura e alla scoperta della tomba vuota. Lava il corpo del Cristo, cosa consentita solo alle mogli o ad altri uomini, ed è la prima persona alla quale Gesù si rivolge dopo la resurrezione.  

Il sentimento popolare, soprattutto in Francia, non ha avuto bisogno di aspettare Dan Brown per venerare Maria di Magdala come la seconda donna più importante del Cristianesimo dopo la Vergine Maria, nonostante papa Gregorio Magno l’avesse bollata nel 590 come una prostituta, commettendo un vistoso errore - forse meditato e voluto - di interpretazione dei testi canonici. Per secoli è stata ritratta dai grandi maestri, da Tiziano a Caravaggio a Canova, come una penitente afflitta dai suoi peccati: che sia stata o no la moglie di Gesù, era un destino che non meritava. 

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Sono Fascisti dentro gli Italiani



Gli italiani? Sono fascisti dentro

Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora 
oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese

Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19)

Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia?

Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi.


In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare.

Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà.

Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale.

Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord.

La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti.
Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare.

Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo.

Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.

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sabato 14 novembre 2015

Nuzzi e Fittipaldi Autori dei libri «Avarizia» e «Via crucis»



Vatileaks, indagati Nuzzi e Fittipaldi
per il caso «corvi» in Vaticano
Gli autori dei libri «Avarizia» e «Via crucis» inquisiti nell’ambito dell’inchiesta sulla fuga di documenti riservati dalla Santa Sede. Fittipaldi: «Rischi del mestiere.
 Il potere si difende contrattaccando»

I giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, autori dei libri «Avarizia» e «Via crucis», sono indagati nell’ambito dell’inchiesta vaticana sulla fuga di documenti riservati dalla Santa Sede. Nel libro del giornalista napoletano de L’Espresso (pubblicato da Feltrinelli), come specificato nel sottotitolo, si parla delle «carte che svelano ricchezza, scandali e segreti della Chiesa di Francesco». 

Sotto inchiesta anche Gianluigi Nuzzi per il suo nuovo libro uscito per Chiarelettere il 9 novembre, in cui racconta fatti e retroscena della drammatica guerra intrapresa da Papa Francesco per rivoluzionare la Chiesa, incontrando non pochi ostacoli nello scardinare un radicato sistema di privilegi e interessi.
L’accusa
Il capo d’accusa è «possibile concorso nel reato di divulgazione di notizie e documenti riservati previsto dalla Legge n.IX dello Stato Città del Vaticano». Lo conferma in serata lo stesso portavoce della Santa Sede, Padre Federico Lombardi, il quale ha aggiunge che «nell’attività istruttoria avviata, la magistratura ha acquisito elementi di evidenza del fatto del concorso in reato da parte dei due giornalisti che a questo titolo sono ora indagati». E aggiunge: «Sono all’esame degli inquirenti anche alcune altre persone che per ragioni d’ufficio potrebbero aver cooperato all’acquisizione dei documenti riservati».

Fittipaldi: «Rischi del mestiere»
Ha scelto di commentare la notizia di essere stato indagato dal Vaticano, sul sito del suo giornale 
Emiliano Fittipaldi: «Quando il giornalismo d’inchiesta scoperchia scandali e segreti che il potere, anche quello temporale del Vaticano, vuole tenere nascosti, quel potere si difende, contrattaccando. Ma è un rischio che fa parte del mio mestiere. Io sono tranquillo, non ho nulla da temere». Emiliano Fittipaldi, autore di «Avarizia» il libro da cui è scaturita l’inchiesta Vatileaks 2 reagisce così alla notizia. «Non mi risulta ci siano rogatorie internazionali - dice Fittipaldi -. Credo si tratti di un’inchiesta vaticana all’interno di Vatileaks. Io sono tranquillo, quando si fa un giornalismo di inchiesta come quello che faccio io, si raccontano anche imbarazzi e scandali». Fittipaldi evidenzia ancora: «non una riga del mio libro è stata smentita. Non conosco comunque quali siano eventuali capi di imputazione, non so se vorranno processarmi. Una cosa mi fa riflettere: Gesù Cristo dice che la verità ci rende liberi e ora arriva una reazione tanto forte».
Il contesto
Il caso Vatileaks è esploso nei giorni scorsi, alla vigilia dell’uscita dei due libri quando, a seguito della fuga di notizie, la Gendarmeria vaticana ha arrestato monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Chaouqui— poi rimessa in libertà per la sua collaborazione – che in passato erano stati rispettivamente segretario e membro della Commissione referente di studio e indirizzo sull’organizzazione delle strutture economico-amministrative della Santa Sede, istituita dal Papa nel luglio 2013 e successivamente sciolta dopo il compimento del suo mandato. Il monsignore (che resta agli arresti) e la pierre sono accusati di aver diffuso documenti riservati. Papa Bergoglio, durante l’Angelus di domenica 8 novembre ha rotto il silenzio e ha detto: 
«Rubare documenti è un reato, un atto deplorevole».
L’indagine sul documento Apsa reso noto
Intanto il Vaticano prosegue nella sua battaglia: «Un’indagine è stata aperta dall’Autorità giudiziaria 
vaticana in merito alla diffusione del documento riguardante l’Apsa, l’organismo vaticano competente per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica». Così, padre Federico Lombardi in merito a Vatileaks. «Nei giorni scorsi sono apparsi su agenzie e organi di stampa articoli che riferiscono in maniera parziale e imprecisa il contenuto di un documento confidenziale, ipotizzando che in passato l’Apsa sia stata strumentalizzata per un’attività finanziaria illecita», si legge nella nota della sala Stampa della Santa Sede. «L’Autorità giudiziaria vaticana ha aperto un’indagine in merito alla diffusione del documento. L’Apsa - continua la nota - ha sempre collaborato con gli organi competenti, non è sotto indagine e continua a svolgere la propria attività nel rispetto della normativa vigente». Parte del fascicolo è stato pubblicato la scorsa settimana dall’agenzia Reuters e parlava di un coinvolgimento del presidente di Banca Finnat, Giampiero Nattino, che avrebbe utilizzato conti Apsa per transazioni 
personali sul mercato azionario italiano.
Il settimanale del Vaticano
Sul caso Vatileaks è intervenuto anche monsignore Nunzio galantino, segretario della Cei: «Il materiale reso pubblico il Papa lo conosce benissimo perché è lui, sulla spinta degli incontri pre-Conclave, che ha fatto fare queste ricerche e ha intrapreso il processo di riforma». Così il segretario della Cei, sugli scandali in Vaticano dopo la fuga di notizie, che ha portato alla pubblicazione dei volumi di Gianluigi Nuzzi e di Emiliano Fittipaldi. La riforma messa in atto dal Pontefice, spiega Galantino a Famiglia Cristiana, «era desiderio anche di Benedetto XVI. Fu lui, durante una Via Crucis, a parlare di sporcizia dentro la Chiesa. Ma la Chiesa ha sentito l’esigenza di chiamare per nome questi peccati, questi abusi, questi atteggiamenti 
che non sono in linea col Vangelo né con il buon senso né con il bene delle persone».

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giovedì 5 novembre 2015

I Greci condannavano a Morte chi eliminava un albero di Ulivo


I Greci condannavano con la morte
 chi uccideva un albero d’ulivo

L’olivo nel Salento leccese 4 mila anni fa è giunto dal mare, trasportato da antichi naviganti fenici sbarcati sulla penisola salentina. Sia gli scrittori locali che i visitatori del Salento leccese sono sempre stati ipnotizzati dalla fitta foresta degli ulivi. Questi alberi maestosi e imponenti  sono disposti ad arco intorno alle città, oppure coltivati all’interno dei muri di recinzione. Ferrari afferma che il segreto della ricchezza di prodotto degli olivi del Salento leccese deriva dalla costante e corretta potatura: “per farli più fruttiferi ogni anno con diligenza li padroni da persone pratiche li fanno nettare“.

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domenica 1 novembre 2015

Fine del Cinema Hard



Lode a Jenna Jameson, che ha donato il porno al mondo
La fine del cinema hard

Dieci anni fa, a giudicare da come si concludeva la sua autobiografia, How to Make Love with a 
Pornstar – che in italiano è diventato un banale Vita da Pornostar – tutto sembrava essere andato per il meglio, a Jenna Jameson. L’happy ending raccontava come la regina incontrastata del porno fosse 
riuscita a riconciliarsi con la famiglia, trovare armonia ed equilibrio dopo trent’anni difficili segnati da disgrazie e difficoltà e, al tempo stesso, da un successo travolgente nel mondo dell’hard.

Il libro è interessante proprio per questo: Jenna Jameson (nome d’arte per Jenna Marie Massoli) 
ripercorre tutte le tappe, anche quelle più scure, che la portano al successo finale. La morte della 
madre, ballerina di Las Vegas, nel 1976, quando lei aveva solo due anni; i successivi abusi delle 
matrigne; il continuo vagare negli Stati Uniti; la droga, che assume col fratello e col padre; le due 
violenze sessuali a sedici anni (la prima durante un autostop, che ha rischiato di ucciderla; la seconda 
da parte dello zio del suo fidanzato dell’epoca, che ha negato tutto); il lavoro a Disneyland lasciato 
subito; la vita a due col fidanzato tatuatore, da cui proviene la sua passione e anche il marchio di 
fabbrica: i due cuori sulla natica destra, cui si aggiungerà la scritta “Heart breaker”.

La pornografia, e la celebrità, arrivano subito dopo “gli anni della formazione”, cioè delle serate danzati, degli strip ancora minorenne a Las Vegas (per entrare nel Crazy Horse Too – racconta – si era strappata l'apparecchio per i denti da sola, con una pinza), dei servizi fotografici e degli agenti 
approfittatori. Il suo primo film è del 1993, ed è una scena tra ragazze. L’anno dopo gira Up and 
Cummers 10 e Up and Cummers 11. Un successo. «Volevo diventare una star», dirà. Ma la verità era 
che aveva deciso di girare porno per ripicca nei confronti del fidanzato di allora, che la tradiva. Era una liberazione e una rivendicazione. E la scoperta di una nuova strada.
Per arrivare alla scrittura della biografia bisognerà aspettare ancora dieci anni. Nel frattempo c'è spazio per 27 premi, una doppia operazione al seno, la fondazione nel 2000 del sito porno ClubJenna, con cui produce il film Briana loves Jenna, successo strepitoso e pietra miliare del genere. C’è tempo anche per ricadute nella droga, ma anche apparizioni in tivù, in radio, su manifesti a Times Square e sulla Hall of Fame e, udite udite, in dibattiti in difesa dell'hard,
 vinti a mani basse, all'università di Oxford. 

Insomma, con il suo libro, Jenna Jameson celebrava l'happy end tradizionale della sua vita poco 
tradizionale. Appariva felice, insieme al marito e socio Jay Grdina, 
riunita con il fratello e il padre e in cima a una carriera bene avviata.



Ebbene, ora che ne ha quaranta, cosa è cambiato? Molte cose. Sul piano personale, il matrimonio 
finisce nel 2006, e la cosa ha un impatto anche nell’immaginario, perché il marito era stato, dal 1998, 
l'unico partner maschile nelle apparizioni cinematografiche di Jenna. Ha anche problemi di salute e un cancro alla pelle le provoca un aborto spontaneo (e forse è proprio questa la causa della separazione da Grdina). Ora sta con il campione di arti marziali Tito Ortiz, che, a quanto pare, non la tratta sempre bene, ma è diventata madre di due figli.

Sul piano professionale, nel 2007 decide di ridursi il seno. Qualcosa sta cambiando: l’anno dopo dà 
l’addio al mondo del porno, almeno come attrice. Resta a capo di ClubJenna, che fattura 30 milioni di dollari all'anno, ma non appare più, «nemmeno in una copertina di Maxim». Certo, è ricomparsa nel 
2013 sul sito MyFreeCams, ma le probabilità di un suo ritorno nell’industria sono basse, anche se 
sarebbe bene accolta. «Se ci fosse un monte Rushmore del porno – spiega Steven Hirsch, fondatore e 
Ceo di Vivid Pictures – ci sarebbe senz’altro scolpito il suo volto: è stata la prima donna a renderlo così mainstream e popolare». La sua presenza mediatica, fatta di partecipazioni televisive, libri, citazioni (appare anche in un episodio dei Griffin) l'ha resa un simbolo pop globale, e ha “sdoganato” un mondo intero. Potrebbe ritornare, ma non lo farà, e il motivo è semplice. Quel mondo, mente veniva sdoganato, stava già finendo.



Come spiega Simone Regazzoni, autore del libro Pornosofia, Jenna Jameson è interessante perché è 
«l’archetipo ideale del porno mainstream Usa: è bionda, molto formosa, rifatta. È il corrispettivo di 
Marilyn Monroe. Un modello erotico più immaginario che reale, perché l’industria del porno non lavora con corpi reali» e – va aggiunto, che si scontra con «il corpo dalle fattezze quotidiane, che sta tornando in auge negli ultimi anni». Questo scarto spiega tutto, dal momento che «Jenna Jameson rappresenta un immaginario erotico in cui le dinamiche del godimento erano diverse. Il suo corpo, come quello di Sasha Gray, che è di fatto la sua erede, è bi-dimensionale, de-corporeizzato, quasi plastificato: la carne non si vede».

«Quando ha esordito lei il porno aveva ancora la forma del film, in cui servivano dei registi, una storia, sebbene ridicola e pretestuosa, e un set. Adesso, con l’introduzione dell’amatoriale quel modello non esiste più. Sono cambiati gli attori, la forma estetica, prevalgono corpi “normali”, non c'è nessuna narrazione». Di conseguenza, anche l’industria ha dovuto adattarsi. Il cinema porno, con i suoi stilemi, ha contaminato campi e aree prima inesplorati. È avvenuto proprio mentre Jenna Jameson diventava un’icona pop, oltre i confini del genere, e non è un caso.
 Il porno “sdoganato” ha invaso la società».

«Adesso le star che hanno incorporato le dinamiche estetiche del porno mainstream appartengono 
all’ambito musicale, e penso a Miley Cyrus, o a Lady Gaga, amanti dell’eccesso, del corpo modellato ed esibito. Al tempo stesso anche il cinema non pornografico è sempre più interessato a incorporare gli stilemi del porno classico. Uno degli esempi più recenti potrebbe essere anche Nymphomaniac, di Lars von Trier, ma è uno dei tanti. Certo, da tempo gira la voce che esistano film porno segreti di Scorsese o Almodovar. Sono solo leggende, ma il fatto che vengano raccontate è già significativo».

E allora, compiuti i 40 anni (a proposito: tanti auguri), come sarà il futuro di Jenna Jameson? «Difficile fare previsioni: la vita professionale di una pornostar è breve, è come quella di un’atleta. Sono tipologie paragonabili: entrambe lavorano con il corpo e i suoi limiti. Ma Jenna è una star e fuori dal cinema potrà fare qualsiasi cosa», proprio come fa Sasha Gray, che è ora è musicista, scrittrice, dj. «Non è esatto: lei non è una musicista o una scrittrice: è Sasha Gray che fa la musicista, Sasha Gray che fa la scrittrice. Sasha Gray che fa la dj. La sua fama proviene da lì, dal porno, e ora prova a spenderla da altre parti. 

Contaminando altri mondi. Ma mai staccandosene davvero».


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