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giovedì 20 febbraio 2020

Salvini Non andava al Leoncavallo

Salvini Non andava al Leoncavallo


La Bufala dei trascorsi dell'ex ministro dell'interno 
nel centro sociale più famoso degli anni Novanta. 
Come tutte le leggende di successo anche questa merita di essere indagata
C’è una leggenda metropolitana che circola inesorabile e che si dipana tra titoli di giornale, ritratti a mezzo stampa e commenti social. La circostanza è clamorosa, quantomeno bizzarra. Eppure viene raccontata come se fosse normale, quasi con noia. Il leader della Lega Matteo Salvini, attuale vicepremier e ministro dell’interno, si sarebbe fatto le ossa, quantomeno avrebbe bazzicato con una certa solerzia, il centro sociale Leoncavallo di Milano, luogo simbolo dei movimenti degli anni Novanta. Media e commentatori, là fuori, paiono non avere dubbi: il passato centrosocialista del leghista viene dato per scontato. Citiamo a caso: «Il suo luogo di ritrovo era il Leoncavallo». «Frequentava il Leoncavallo». 
O un più immaginifico: «Dal Leoncavallo alle ruspe» (visto in un servizio televisivo su La7).

Se la cosa fosse vera non creerebbe alcun turbamento. Non sarebbe il primo caso di pendolarismo politico della storia italiana. Solo che basta grattare appena il rosso col quale viene dipinto il ritratto del giovane Salvini per scoprire che tutta questa vicenda non sta in piedi. Nondimeno, è proprio la smaccata falsità a rendere interessante la vicenda. Alcune cose le sappiamo con certezza. Sappiamo che, come l’altro Matteo (Renzi), Salvini prova a costruirsi una fama da personaggio televisivo. Abbiamo prove certe di quando esercita la sua voglia di essere sugli schermi comparendo da ospite al quiz televisivo Doppio Slalom, condotto da Corrado Tedeschi. Siamo nel 1985, l’imberbe concorrente ha dodici anni. Sappiamo anche che si iscrive ai giovani padani quando ancora frequenta il liceo, nel 1990, pochi mesi dopo che lo sgombero del Leoncavallo dell’agosto precedente, cui seguirono la rioccupazione e la ricostruzione del centro sociale che servì da miccia per innescare la valanga di autogestioni in tutto il paese che caratterizza tutto il decennio successivo.

Ma torniamo al giovane Salvini, e alla sua precoce simpatia leghista che cozza palesemente con la presunta passione per il Leoncavallo. Tre anni dopo la sua iscrizione alla Lega, siamo nel 1993, fa il suo ingresso in consiglio comunale. Viene eletto con duecento voti, al seguito del sindaco Marco Formentini. La Lega vince a Milano e sbarca dalla pedemontana in città. Lo fa utilizzando la propaganda securitaria e la retorica del decoro. Lo fa dichiarando guerra proprio ai centri sociali. Salvini entra a palazzo Marino non prima di aver partecipato a un altro gioco a quiz: questa volta si tratta de Il Pranzo è Servito, condotto da Davide Mengacci. Il quale conserva un’immagine dell’ospite dal futuro illustre che non corrisponde affatto alla raffigurazione leggendaria della quale stiamo risalendo le tracce: «Un ragazzotto di belle speranze, sembrava uno yuppie coi capelli lunghi», ha detto di recente.



Il mistero del dilagare di una panzana tanto evidente si infittisce. Ma prima di proseguire dobbiamo rileggere le analisi di Primo Moroni su  postfordismo e nuova destra sociale. La conquista leghista della metropoli, scriveva Moroni esattamente nei giorni in cui Formentini diventava sindaco, segna il passaggio di scala: dalla difesa del piccolo distretto produttivo alla metropoli, dall’illusione della protezione della rete locale all’articolazione del consenso politico più diffuso. Il successo della Lega è conseguenza della capacità di utilizzare i media (Bossi è da subito un animale da talk show), costruire immaginario, intercettare le ambivalenze. Salvini fa il suo apprendistato in questa temperie. Prende appunti, impara che dalla difesa della città alla difesa della nazione il passo è breve. Capisce che quando lo spazio pubblico diventa spazio privato il passaggio successivo è: “Prima gli italiani”.

Arriviamo alla testimonianza del protagonista di questa storia. Prendiamo in mano Secondo Matteo, l’autobiografia che il leader leghista ha dato alle stampe nella primavera del 2016. Ricostruendo la sua militanza nella Lega fin dalle origini, cioè da quando andava al liceo Manzoni, dove ovviamente se lo ricordano come tutt’altro che simpatizzante per qualsivoglia sinistra, anche la più moderata, Salvini ricorda: «Io nello storico centro sociale milanese avevo messo piede una sola volta. Per un concerto. Quando la politica ancora non mi interessava». Altra certezza: una fugace apparizione viene ingigantita fino a diventare presenza costante tra le mura graffitate del Leo. C’è di più: alcuni militanti del Leoncavallo ricordano di quella unica presenza del leghista al centro sociale. Raccontano di quando venne riconosciuto in quanto giovane leghista e descrivono come alcuni leoncavallini che frequentavano la stessa scuola di Salvini in qualche modo impedirono che la situazione degenerasse. Tanto basta perché la palla di neve invece di sciogliersi al sole divenga slavina, fino alla patente di «assiduo frequentatore» attribuita da Wikipedia a Salvini.

Probabilmente alla base della valanga cazzara c’è una provocazione tirata fuori dallo stesso futuro inquilino del Viminale. Si era all’indomani degli scontri del 10 settembre 1994. In quel giorno, dopo mesi di angherie, sgomberi e criminalizzazioni ad opera della giunta di Formentini, sostenuta da una maggioranza del quale lo stesso Salvini fa parte, un corteo di almeno ventimila persone attraversa il centro di Milano. Arrivati in piazza Cavour, i manifestanti chiedono di arrivare fino a piazza Duomo. Di fronte all’ennesimo rifiuto da parte degli apparati di sicurezza, decidono di forzare il blocco e costringono la polizia a fuggire. Seguono scontri durissimi che si concludono con la marcia fino all’attuale sede del Leoncavallo, quella di via Watteau. In quei giorni di fuoco il giovane Salvini, da debuttante consigliere comunale decide di spararla grossa per guadagnarsi la sua prima apparizione nelle pagine locali. Ed esclama in aula: «Chi non ha mai frequentato un centro sociale? Io sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni…». Questa specie di captatio retorica («Pensate, ci andavo anche io!») contiene una delle polpette avvelenate che il giovane e ancora inesperto Salvini sta imparando a confezionare: gli è utile dividere i manifestanti in violenti e pacifici: «Gli incidenti sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e condivisibili, ma sono stati strumentalizzati».



A questo punto, chi ha avuto la pazienza di seguire la nostra digressione avrà fatto mente locale. E si sarà figurato la pistola fumante, l’altra presunta prova schiacciante del leggendario passato leoncavallino di Matteo Salvini. Siamo al 1997. La Lega Nord di Umberto Bossi è nel pieno della sua fase secessionista, non ha ancora ricucito con Silvio Berlusconi e ha tutto l’interesse di presentarsi come vera forza post-ideologica. È in questo contesto che Bossi celebra prima il referendum per l’indipendenza della Padania e poi mette in piedi una pantomima di elezioni per eleggere un parlamento di cartapesta, che avrà la sua prima sede nei pressi di Mantova. Alla competizione elettorale, celebrata con urne sparse in mille gazebo sparpagliati a nord del sacro fiume Po, partecipa un drappello di liste civetta, in apparente concorrenza tra loro ma in realtà composte (con l’eccezione del simbolo presentato dai radicali della Lista Bonino Pannella) da ferventi leghisti. C’è la Destra padana, ci sono i Cattolici padani e (insieme ad altri otto simboli che riproducono con involontario umorismo le correnti politiche tradizionali) ci sono i Comunisti Padani cui aderisce proprio Matteo Salvini. È lui stesso, sempre dalle pagine della sua autobiografia, ad essere cosciente di come quella pantomima di democrazia e quell’esercizio ideologico funzionale a spettacolarizzare la nascita di una nazione inventata, possano essere travisati: «Qualche anno dopo – racconta – mi presentai alle elezioni per il Parlamento della Padania con i Comunisti del Nord, sfoggiando un simbolo che raffigurava un Che Guevara su sfondo verde».

Analizzando rumor e leggende metropolitane, nel 1944 lo psicologo sociale R. H. Knapp fece una prima categorizzazione del fenomeno. Accanto alle leggende che esprimono speranze o timori, vi sono quelle più frequenti che danno una forma inconsueta eppure non casuale a concetti e che non possono non essere articolati in altri modi, magari per paura della disapprovazione. Ecco perché non basta diffondere la versione dello stesso Salvini sulla sua frequentazione antagonista e non bastano i dati di fatto per smentire la diceria. Questo è uno di quei casi in cui ci si imbatte nell’ostinata professione di fede che caratterizza soltanto le leggende metropolitane più interessanti. Alcuni addirittura aggiungono dettagli. Descrivono il giovane Salvini in poncho e indumenti andini, a pare di sentire la colonna sonora degli Inti Illimani in sottofondo (le leggende metropolitane spesso si combinano coi cliché). È il segno che questa storia ci interessa perché rivelatrice del senso comune. Il futuro ministro dell’interno intento a frequentare il centro sociale simbolo dei primi anni Novanta si materializza qui davanti a noi perché aggancia convinzioni sotterrane, collima con alcune infrastrutture di pensiero inconfessabile,
 fa il paio con sottotrame prepolitiche utili a comprendere il nostro tempo.



Si dirà, e questa volta non a torto, che il fatto che persino Salvini frequentasse il Leoncavallo sarebbe soltanto la conferma della centralità degli spazi occupati nella vita sociale delle nostre città, della loro capacità di attirare utenti al di là delle appartenenze. Qualche tempo fa si diffuse una foto che ritraeva un presunto Nigel Farage nelle vesti di un giovane punk. Al leader dello Ukip, la formazione ultraconservatrice che ha lavorato più di ogni altra per dare un senso reazionario alla Brexit, veniva attribuita una giovinezza di trasgressione sottoculturale anche se negli anni del punk Farage era un operatore finanziario specializzato in materie prime alla City. La storia inventata del giovane Farage punk fa il paio con quella leggendaria del giovane Salvini simpatizzante post-autonomo. Anche quest’ultima, rafforza l’ideologia del né di destra né di sinistra, il concetto che in fondo oggi per «difendere i più deboli» (l’espressione è di Salvini, sempre dal suo libro) serva liberarsi dagli steccati ideologici per innalzare barriere e scatenare la caccia ai più poveri. Al tempo del marxismo di estrema destra di Diego Fusaro, delle balle rossobrune su Thomas Sankara contro le migrazioni e Pier Paolo Pasolini anti-antifascista, per Matteo Salvini un passato da leoncavallino, un presente da ministro di estrema destra. In futuro, chissà.

*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura





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