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martedì 12 novembre 2019

Economia della Ciambella


Economia della Ciambella


 Come Rendere Operativa la Sostenibilità

Ospitiamo di seguito alcuni paragrafi dell’introduzione di Gianfranco Bologna e Enrico Giovannini “L’economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilità” al volume di Kate Raworth “L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare 
come un economista del XXI secolo”,  edizioni Ambiente.

Siamo in un periodo senza alcun precedente nella storia dell’umanità. Mai siamo stati così numerosi sulla Terra, mai abbiamo avuto una disparità così elevata tra i pochissimi che possiedono tantissimo e i tantissimi che possiedono pochissimo [1] , mai abbiamo stravolto con questa ampiezza e in tempi così rapidi i sistemi naturali senza i quali non possiamo vivere, mai abbiamo messo a rischio le opzioni evolutive di tutti gli altri esseri viventi che con noi condividono ora la storia del nostro pianeta, mai abbiamo così profondamente intaccato le basi che ci consentono di vivere, di avere benessere, prosperità e sviluppo.

Gli effetti delle attività umane sul nostro pianeta sono oggi ritenuti equivalenti a quelli prodotti dalle grandi forze della natura che hanno causato significativi mutamenti nel nostro sistema Terra nell’arco dei suoi 4.6 miliardi di anni di vita, tanto da far proporre alla comunità scientifica che si occupa di scienze del Sistema Terra e dei suoi cambiamenti globali, l’indicazione di un nuovo periodo geologico, definito Antropocene [2]. Recentemente, autorevoli studiosi delle scienze dei cambiamenti globali (Global Changes) hanno elaborato l’equazione dell’Antropocene, che certifica come, allo stato attuale, l’intervento umano causa complessivamente effetti nei cambiamenti del sistema Terra profondi e superiori a quelli dovuti alle forze di origine astronomica, geofisica e interna allo stesso sistema [3] . […]

L’umanità, grazie alle straordinarie capacità della sua evoluzione culturale è andata progressivamente allontanandosi dalla natura, cioè dall’insieme dei sistemi naturali dai quali deriva e proviene, frutto degli straordinari processi evolutivi del fenomeno vita sulla nostra Terra e senza i quali non può sopravvivere. Si è trattato di un processo lungo e complesso, fortemente accentuatosi dall’inizio della Rivoluzione Industriale, intorno al 1750, rispetto al periodo complessivo di circa 200.000 – 300.000 anni che costituisce il periodo di vita della nostra specie (l’Homo sapiens) sulla Terra. In altri termini, nell’ambito di un arco temporale di un paio di secoli e mezzo la maggioranza dell’umanità è vissuta in una dimensione culturale che ha considerato la natura sempre di più come una fonte inesauribile di risorse da utilizzare e come un ricettacolo, ritenuto altrettanto inesauribile, capace di metabolizzare rifiuti e scarti. Non solo, ma in questo periodo l’umanità è andata sempre di più urbanizzandosi, ha attivato sistemi di produzione e consumo molto articolati e ha prodotto straordinari avanzamenti nella tecnologia, tutti fattori che la hanno condotta sempre di più in una dimensione fisica e culturale di allontanamento dalle dinamiche evolutive dei sistemi naturali, dalle quali è dipesa e dipende e con le quali ha convissuto per le decine di migliaia di anni precedenti. […]

Le dimensioni del nostro impatto si sono andate particolarmente intensificando negli ultimi 60 anni, in un periodo che gli studiosi definiscono “la grande accelerazione” [4] , la quale ha determinato effetti devastanti […] Questo progressivo allontanamento fisico e culturale dalla natura, “immersi” quotidianamente nei nostri sistemi urbani e artificiali, ci ha anche fatto pensare di poterne fare a meno, come se non ne avessimo bisogno, come se potessimo essere indipendenti da essa. La verità, come la scienza ci dimostra chiaramente, è che gli esseri umani sono strettamente dipendenti dai sistemi naturali e fortemente collegati ad essi. L’intero fenomeno della vita sulla Terra e quindi anche noi che ne siamo un prodotto, costituisce un intricato, complesso ed affascinante sistema nel quale siamo tutti interconnessi. […]

La sfida che l’umanità ha ora di fronte è realmente una sfida epocale. La pressione umana sui sistemi naturali è completamente insostenibile e, con i grandi cambiamenti globali che abbiamo indotto nella natura, la nostra stessa civiltà è a rischio. La popolazione umana sulla Terra ora è di oltre 7 miliardi e 400 milioni, più di 9 volte gli 800 milioni di persone che si stima vivessero nel 1750, data indicata come inizio della Rivoluzione Industriale. Questa cifra dovrebbe raggiungere, seguendo la variante media indicata dalle Nazioni Unite nei suoi “World Population Prospects” (che è la più attendibile), i 9.7 miliardi di abitanti nel 2050. La popolazione mondiale continua
 a crescere a un tasso di circa 83 milioni l’anno [5].

Le dimensioni dell’economia mondiale sono anch’esse senza precedenti; il prodotto mondiale lordo viene stimato attualmente in 91.000 miliardi di dollari che sono almeno 200 volte quelle del 1750 (anche se si tratta di un confronto difficile perché buona parte dell’economia mondiale è oggi costituita da beni e servizi che 250 anni fa non esistevano) [6]. […]

Disponiamo ormai della certezza scientifica che il sistema economico sin qui perseguito, diffuso nelle società umane di tutto il mondo è in chiaro conflitto con la realtà biofisica dei nostri sistemi naturali. Questo aspetto costituisce oggi il problema maggiore che l’umanità si trova ad affrontare e la ricerca delle soluzioni per ottenere una relazione armonica tra i sistemi naturali ed i sistemi sociali, la sostenibilità, dovrebbe essere posta come primo punto dell’ordine
 del giorno dell’agenda politica internazionale.

Per essere veramente operativo lo sviluppo sostenibile richiede un reale cambiamento della nostra visione e della nostra azione concreta nel rapporto che abbiamo con il mondo naturale. Oggi abbiamo una consapevolezza sempre più chiara dei limiti ecologici globali. Il nostro sistema economico deve inevitabilmente agire nell’ambito dei limiti biofisici che presentano i sistemi naturali del nostro pianeta. Questo significa, con grande chiarezza, che abbiamo bisogno
 di un nuovo modo di fare economia.

I sistemi economici delle società umane non possono costituire il sistema centrale di riferimento del nostro mondo quotidiano come avviene oggi. Questi sistemi sono, in realtà, dei sottosistemi del più grande ecosistema globale del pianeta (la biosfera) e non possono quindi essere gestiti come se fossero indipendenti da esso. L’umanità deriva e dipende dalla natura, ne è parte integrante ed è costituita dagli stessi elementi fondamentali che compongono l’intero universo, la Terra, e lo stesso fenomeno della vita sul nostro pianeta e non può esistere al di fuori di essa. I modelli economici perseguiti dalle società umane non possono, quindi, operare al di fuori dei limiti biofisici 
che i sistemi naturali presentano.

Per questo la crescita della popolazione e della produzione non devono spingersi oltre le capacità ambientali di rigenerazione delle risorse e di assorbimento dei rifiuti. Come ricorda Herman Daly, ciò che è necessario a questo punto non è un’analisi sempre più raffinata di una visione difettosa, ma una nuova visione. Egli ci ricorda che uno sviluppo sostenibile, uno sviluppo senza crescita quantitativa, non implica la fine delle scienze economiche ma, al contrario, l’economia come disciplina diviene ancora più importante. Si tratta però di un’economia raffinata e complessa dedita al mantenimento, del miglioramento qualitativo, della condivisione e dell’adattamento ai limiti naturali. E’ un’economia del “meglio”, non del “più grande”. […]

Purtroppo le nostre impostazioni culturali hanno strutturato la conoscenza e quindi anche le modalità di fare ricerca e le università in un modo che non corrisponde a quello in cui funziona la realtà. Non possiamo sperare di risolvere i problemi ambientali come il cambiamento climatico con un approccio settoriale attraverso discipline scientifiche frammentate e isolate. In realtà, le ricerche dovrebbero mirare a una comprensione sistemica il più ampia possibile. Nonostante una conoscenza sempre più approfondita dei modi in cui funziona il nostro pianeta, non stiamo in realtà facendo nessun progresso scientifico in direzione di un futuro più sostenibile[7]. Abbiamo bisogno di una scienza interdisciplinare che si focalizzi sulla risoluzione dei problemi. Giorno dopo giorno, ci sono sempre più studi che cercano di integrare scienze sociali, studi umanistici e scienze naturali, ma rimane tanto lavoro da fare. Fortunatamente sono state fondate organizzazioni di ricerca ambientale multidisciplinari e in queste realtà è più facile aggregare scienziati che comprendano pienamente le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano pienamente le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta. […]

I problemi che abbiamo di fronte sono così complessi che richiedono una forte collaborazione oltre i confini disciplinari. […] La sostenibilità è costituita da tanti elementi che devono essere sempre tenuti in connessione tra loro e già questo costituisce una notevole sfida alla nostra mentalità abituata a pensare seguendo logiche lineari di causa ed effetto. Volendo semplificare il concetto in una semplice definizione, possiamo affermare che sostenibilità vuol dire imparare e vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani e in armonia con la natura, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che siamo in grado di abitare: la Terra.

Oggetto fondamentale delle ricerche sulla sostenibilità sono i Social-Ecological Systems (SES), cioè la capacità di comprendere le interazioni e i legami esistenti tra gli esseri umani e i sistemi naturali e comprendere come sia possibile gestirli al meglio.

Nell’analisi di questa situazione si colloca la straordinaria avventura intellettuale e operativa di Kate Raworth, molto attenta a incrociare le conoscenze scientifiche con quelle sociali ed economiche per concretizzare percorsi di sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo. L’avventura inizia nella seconda metà del primo decennio del 2000, con la prima pubblicazione scientifica di numerosi autorevoli studiosi dediti alla Global Sutainability e alle scienze del Sistema Terra, che hanno cercato di indicare le dimensioni di uno spazio operativo sicuro (Safe and Operating Space) per l’umanità indicando i Planetary Boundaries (“confini planetari”) entro cui muoversi.

Il primo lavoro sull’individuazione di tali confini che l’intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali[8] è del 2009. Si tratta di una tematica che è stata precedentemente affrontata da vari studiosi, basti qui ricordare le straordinarie intuizioni degli studiosi che hanno predisposto rapporti per il Club di Roma sin dal 1972 sui limiti del nostro sviluppo rispetto ai limiti biofisici del pianeta [9] e come dall’inizio degli anni Novanta è stata presentata l’ipotesi dell’Environmental Space, cioè lo “spazio ambientale” che ciascun individuo può avere a disposizione per l’utilizzo delle risorse e per la possibilità di produrre degli scarti [10].

I “limiti“ di cui parliamo riguardano nove grandi problemi planetari dovuti alla forte pressione umana, tra di loro strettamente connessi e interdipendenti: il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità e quindi dell’integrità biosferica, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici. Per quattro di questi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suoli ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi. Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi, possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio e in questo modo si definisce quell’area come “uno spazio operativo sicuro per l’umanità” (Safe and Operating Space, S.O.S.). […]

Il benessere umano dipende, oltre che dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse in un buono stato naturale complessivo che non deve oltrepassare alcune soglie, anche, e in misura uguale, dalle necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto morale a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Quindi, come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, una sorta di “tetto” oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile e pericoloso per l’intera umanità, Kate Raworth ci indica l’esistenza di un confine interno al prelievo di risorse, un “livello sociale di base” (un sorta di “pavimento”) sotto il quale la deprivazione umana diventa inaccettabile e insostenibile. […]

In questa importante riflessione la Raworth individua così 11 priorità sociali, quali la disponibilità del cibo, dell’acqua, dell’assistenza sanitaria, di reddito, dell’istruzione, di energia, di lavoro, del diritto di espressione, della parità di genere, dell’equità sociale e della resilienza agli shock, indicandole come una base sociale esemplificativa (il “pavimento”) e incrociandole quindi con i confini planetari (il “tetto”) del nostro SOS che, a questo punto oltre ad essere “sicuro” è anche “giusto”. Si viene così a formare, tra questi diritti di base sociali (il “pavimento sociale”) e i confini planetari (i “tetti ambientali”), una fascia circolare a forma di ciambella che può essere definita sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità.

Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo i fautori dei diritti umani hanno sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro i limiti ambientali. Questo spazio è una combinazione dei due, creando una zona che rispetti sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i molteplici confini e al loro interno.

Ma cosa significa muoversi entro lo spazio operativo sicuro ed equo per l’umanità? La grande sfida per raggiungere la sostenibilità del nostro sviluppo nell’immediato futuro è proprio quella di riuscire a comprendere quale sia il numero ottimale della nostra popolazione e le modalità sociali ed economiche necessarie a rispettare le capacità rigenerative e ricettive 
dei sistemi naturali che ci sostengono. […]

Sino ad ora le nostre società hanno perseguito modelli di sviluppo socio-economico che si sono basati sulla crescita continua dell’utilizzo degli stock e dei flussi di materia ed energia da trasferire dai sistemi naturali a quelli sociali. Al centro dei processi economici non è stato collocato il capitale fondamentale che ci consente di perseguire il benessere e lo sviluppo delle nostre stesse società e cioè il capitale naturale, costituito dalla straordinaria ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta. Non avendo sin qui fornito un valore ai sistemi idrici, alla rigenerazione del suolo, alla composizione chimica dell’atmosfera, alla ricchezza della diversità biologica, alla fotosintesi, solo per fare qualche esempio, le nostre società presentano ormai livelli di deficit nei confronti dei sistemi naturali molto superiori ai livelli di deficit che l’attuale crisi economico e finanziaria che stiamo attraversando dal 2008, registra nelle contabilità economiche in tutti i paesi del mondo. […]

Da diversi decenni ci si interroga sui crescenti effetti dei nostri interventi sui sistemi naturali e sulle conseguenze che ne derivano, anche per lo sviluppo e il benessere delle nostre generazioni e di quelle future, e quindi sulla necessità che il nostro mondo venga considerato realmente, anche in termini giuridici, uno straordinario bene comune, un grande “condominio Terra” dove tutti dobbiamo convivere e trarne prosperità e benessere. Oggi le dottrine giuridiche riconoscono che le norme internazionali registrano un errore teorico strutturale nel loro approccio verso i beni ecologici globali e la loro dimensione intergenerazionale. […]

Ora abbiamo bisogno di un nuovo approccio capace di chiudere i vuoti esistenti tra l’organizzazione delle istituzioni internazionali e la realtà delle dinamiche del Sistema Terra, un approccio capace di tenere in conto la dimensione non territoriale delle funzioni del Sistema Terra che è in ovvia relazione con territori tangibili di diversi stati, ma non è confinato in nessuno stato in particolare e non può essere considerato quindi una sottrazione al potere di sovranità nazionale che è considerata intoccabile dal diritto internazionale. […]

Oggi il Sistema Terra, nella dimensione giuridica internazionale può essere considerato un oggetto legale non identificato (an Unidentified Legal Object – ULO) ed inevitabilmente questo stato di cose si riscontra anche nella prassi economica corrente. E’ necessario che le nazioni del mondo riconoscano la necessità di agire concretamente per mantenere la vitalità del Sistema Terra che non sia ristretto soltanto ad alcuni spazi oggi riconosciuti “beni comuni”, come parte dei mari aperti o di aree come l’Antartide, ma che invece comprendano le complessive dimensioni dei sistemi naturali vitali e resilienti oggi soggetti alle giurisdizioni nazionali.

Si tratta di una sfida culturale straordinaria che recentemente alcuni studiosi di diritto internazionale e di scienze del Sistema Terra hanno proposto di delineare in un vero e proprio trattato per governare al meglio lo spazio sicuro ed operativo per l’umanità ricordato prima. Non a caso questa proposta è stata definita “SOS Treaty” (il trattato del Safe and Operating Space)[11].

È necessario che il concetto di un patrimonio comune per l’umanità costituito proprio dal mantenimento della vitalità e della resilienza del Sistema Terra stesso, venga riconosciuto da tutti gli stati del mondo. Importanti passi in avanti sono stati compiuti nell’arco degli anni per cercare di inserire concetti simili, legati comunque a sottolineare il fatto che esistono beni che sono comuni per tutta l’umanità e non privatizzabili e sottoponibili esclusivamente alle giurisdizioni nazionali, in atti formali significativi, come in parte ha avuto luogo nella cosidetta legge sui mari dell’ONU, ma siamo ancora lontani da quella rivoluzione culturale necessaria ad affrontare la complessità del mondo attuale [12].

Un modello legale per l’Antropocene richiede una regolazione responsabile per assicurare la promozione e la protezione degli interessi comuni attraverso la costruzione di nuove forme giuridiche che rappresentino un nuovo modo per rappresentare gli interessi di tutta l’umanità, nel presente e nel futuro. L’economia della ciambella di Kate Raworth costituisce uno strumento fondamentale per avviare questi processi e tutti noi possiamo essere protagonisti di questo straordinario impegno.

di Gianfranco Bologna ed Enrico Giovannini

[1] Vedasi www.weforum.org, il rapporto di Oxfam “An economy for the 99%” scaricabile dal sito https://www.oxfam.org/en/research/economy-99 

[2] Crutzen P.J. e Stoermer E.F., 2000, The Anthropocene, Global Change Newsletter, International Geosphere Biosphere Program (IGBP), 41: 17 – 18, Waters C.N., Zalasiewicz J.A. e Williams M. et al., (eds), 2014, A Stratigraphical Basis for the Anthropocene, Geological Society of  London, Series A,  Waters C.N. et al., 2016, The Anthropocene is functionally and stratigraphically distinct from the Holocene, Science, 351, DOI: 10.1126/science.aad2622

[3] Gaffney O. e Steffen W., 2017, The Anthropocene equation, The Anthropocene Review,  DOI: 10.1 177/2053019616688022 .

[4] Steffen W. et al., 2015, The trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, Anthropocene Review, DOI: 10.1177/2053019614564785

[5] L’ultimo “World Population Prospects: the 2015 Revision” della Population Division delle Nazioni Unite è scaricabile dal sito http://www.un.org/en/development/desa/publications/world-population-prospects-2015-revision.html

[6] Sachs J., 2015, L’era dello sviluppo sostenibile, Edizioni Università Bocconi.

[7] Rockstrom J. e Wijkman A., 2014, Natura in bancarotta, Edizioni Ambiente e Rockstrom J. e Klum M., 2015, Grande mondo, piccolo pianeta, Edizioni Ambiente

[8] Rockstrom J. et al, 2009, A Safe Operating Space for Humanity, Nature, 461; 472-475. Vedasi anche il lavoro più esteso apparso su “Ecology and Society”, Rockstrom J. et al., 2009, Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, Ecology and Society, 14 (2): 32 on line www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32  e  poi Steffen W. et al., 2015, Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet, Science, 347, doi:10.1126/science.1259855

[9] Vedasi i tre rapporti sui limiti Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J. e Behrens III W. W., 1972,  I limiti dello sviluppo, Mondadori. Meadows D. H., Meadows D.L., Randers J., 1993, Oltre I limiti dello sviluppo, Il Saggiatore. Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J., 2006,  I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori.

[10]  Vedasi  Buitenkamp M., Venner H. e Warms T. (a cura di), 1993, Action Plan. Sustainable Netherlands, Friends of the Earth Netherlands ;  Amici della Terra, 1995, Verso un’Europa sostenibile, uno studio dell’Istituto Wuppertal, Maggioli Editore e Carley M. e Spapens P., 1999, Condividere il mondo. Equità e sviluppo sostenibile nel ventesimo secolo, Edizioni Ambiente.

[11] Vedasi Magalhaes P. et al., 2016, SOS Treaty. The Safe and Operating Space Treaty, a New Approach to Managing Our Use of the Earth System, Cambridge Scholars Publishing e il sito dell’alleanza internazionale di ricerca Earth System Governance  www.earthsystemgovernance.org

[12] Il sito www.commonhomeofhumanity.org riassume i concetti di base del volume dedicato all’SOS Treaty.





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lunedì 11 novembre 2019

Silvio Berlusconi e la Mafia

Silvio Berlusconi e la Mafia


Vent'anni di soldi in nero (ma nessuno ne parla)
Le verità scomode sul leader di Forza Italia: dal patto con i boss per assumere ad Arcore il mafioso Vittorio Mangano, al lavoro sporco di Marcello Dell’Utri, condannato perché portava a Cosa Nostra le buste di denaro di Silvio, ogni sei mesi, dal 1974 al 1992. Fatti comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, ma ignorati nella  campagna elettorale


C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. 
Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.
Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui
 Berlusconi ha conquistato anche il potere politico.
Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la  vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile.

IL PROCESSO E LA CONDANNA DEFINITIVA DI DELL'UTRI
Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…).

Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998».

Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio.
 La pena è ridotta a sette anni di reclusione.

La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione.

La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia.

VITTORIO MANGANO, UN MAFIOSO AD ARCORE
Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo.

Silvio Berlusconi e la Mafia


Vittorio Mangano al processo Andreotti
Mangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia lo vanno a cercare per le notifiche,
 almeno fino all’autunno 1976.

Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti.

Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…)

In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione».


IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA
Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani.

Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica.

Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra 
o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi».

Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri».
«Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.»

Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. 
Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”».

Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti».
Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”».
L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).




SOLDI IN NERO DA MILANO A PALERMO
Da allora, dal 1974, Berlusconi comincia a pagare Cosa nostra. Le banconote passano dalle mani di Dell’Utri e Cinà, nella più assoluta segretezza, e arrivano a Palermo per quasi vent’anni, almeno fino al 1992, spiegano le sentenze definitive.
Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i famigliari e per le attività economiche di Berlusconi. Sono versamenti periodici, sempre in contanti, che vanno tenuti nascosti. A Milano l’unico depositario del segreto è Dell’Utri, che gestisce un apposito tesoretto: impacchetta le banconote e le consegna nel proprio ufficio al tesoriere mafioso che viene a ritirarle, in genere ogni sei mesi, per portarle a Palermo. Qui i soldi di Berlusconi vengono spartiti tra i clan secondo rigide logiche mafiose.
Il primo a riceverli, in ordine di tempo, è ovviamente Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta nuova, che negli anni Settanta rientrava nel mandamento di Santa Maria di Gesù comandato da Bontate. Mangano può incassare i soldi di Berlusconi proprio perché è un mafioso del clan di Bontate, l’artefice del patto. Ma deve darne una parte al padrino a cui deve rispondere al Nord: Nicola Milano, che è affiliato alla famiglia di Porta Nuova.
Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato. E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, 
dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi.

Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, è nipote del capomandamento Raffaele Ganci e amico fidato di suo figlio Domenico detto Mimmo. È sicuramente in ottimi rapporti con Cinà, con cui è stato intercettato. Quando decide di collaborare con la giustizia, Galliano rivela che lo stesso Cinà gli ha descritto l’incontro tra Bontate e Berlusconi, dopo il quale il boss «ci manda Mangano» come «garanzia contro i sequestri». «Cinà mi disse che Berlusconi rimase affascinato dalla figura di Bontate: non immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente» ricorda Galliano, che grazie alle confidenze di Cinà può rivelare anche come è stato spartito il denaro di Berlusconi prima e dopo la morte di Bontate. «Cinà si recava due volte all’anno per ritirare i soldi nello studio di Dell’Utri... Questi soldi, Cinà li consegnava prima a Bontate e poi, dopo la guerra di mafia, a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere a Pippo Contorno, uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, il quale li portava al suo capofamiglia Pullarà» Pullarà è un altro boss palermitano passato con i corleonesi e per questo premiato con la promozione a capofamiglia. Così, con il trono di Bontate, Pullarà eredita anche i soldi di Berlusconi.

IL TESORO DI SILVIO FINISCE A RIINA
Conclusa la guerra di mafia, dal 1983 la cosiddetta «dittatura» dei corleonesi, come spiegano i giudici, «ha avuto effetti rilevanti anche nei rapporti con soggetti esterni a Cosa nostra», ben visibili anche nel processo a Dell’Utri. Numerosi pentiti parlano del «pizzo sulle antenne televisive» imposto alle emittenti siciliane del circuito Fininvest negli anni Ottanta. Ma dopo una lunga istruttoria, i giudici si convincono che si tratta di livelli diversi. Il pizzo sui ripetitori viene effettivamente pagato alla singola famiglia mafiosa che controlla il loro territorio da alcuni proprietari delle tv locali consorziate e spesso riacquistate dalla Fininvest. Mentre i soldi di Berlusconi, quelli che continuano a passare attraverso Dell’Utri e Cinà, viaggiano su un piano più alto, quello dei boss, e servono ancora allo scopo originario: garantire una protezione generale a Berlusconi e alle sue aziende. A rivelare come vengano spartiti i soldi di Arcore nell’era dei corleonesi sono soprattutto tre pentiti, molto attendibili, della famiglia mafiosa della Noce, che è «nel cuore» di Riina e dal 1983 viene promossa a mandamento.

(…) In quel periodo Dell’Utri si lamenta di essere «tartassato dai fratelli Pullarà»: Ignazio, arrestato il 2 ottobre 1984, e Giovanbattista, latitante e «reggente». Il problema è semplice: gli eredi di Bontate chiedono troppi soldi a Berlusconi. All’epoca, probabilmente, la tariffa è già raddoppiata: da 25 a 50 milioni di lire ogni sei mesi. Cinà, rispettando le gerarchie mafiose, informa il proprio capofamiglia, Pippo Di Napoli, che avvisa il suo capomandamento, Raffaele Ganci, che a quel punto riferisce a Riina. Il capo dei capi scopre solo allora che i Pullarà avevano tenuto «riservato» il loro rapporto con i signori della Fininvest, senza dirlo né a lui, né al loro capomandamento Bernardo Brusca. Riina si infuria. E decide di impadronirsi di quel rapporto economico, ma con un movente politico: progetta di «avvicinare Bettino Craxi attraverso Dell’Utri e Berlusconi» (…).

Quanto ai soldi del Cavaliere, «Riina ordina che il rapporto deve continuare a gestirlo Cinà, ma nessuno deve intromettersi». E così «da quel momento Cinà va a Milano un paio di volte all’anno a ritirare il denaro da Dell’Utri, lo consegna al suo capofamiglia Di Napoli, che lo gira al boss Ganci, che lo porta a Riina». Sempre seguendo la rigida gerarchia mafiosa. (…) Un’ulteriore conferma che Riina, nell’impadronirsi del rapporto con Dell’Utri e Berlusconi, non persegue solo interessi economici è il suo diktat sulla spartizione finale del denaro in Sicilia. Riina tiene per sé pochi milioni di lire, probabilmente solo cinque. Il resto viene redistribuito dal boss della Noce, Raffaele Ganci (scarcerato nel 1988), secondo la volontà di Riina, che premia ancora una volta i nuovi capi delle famiglie mafiose di sempre: metà spetta a Santa Maria di Gesù (quindi prima ai Pullarà e poi a Pietro Aglieri), un quarto a San Lorenzo (cioè a Salvatore Biondino, l’autista di Riina) e l’ultima parte alla Noce, ossia a Ganci. I pentiti precisano che Riina ordina di lasciare la loro quota ai Pullarà, dopo averli estromessi dal rapporto con Dell’Utri, per far capire che «non è una questione di soldi». (…)

Tra i riscontri oggettivi c'è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento. Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…)

La conclusione dei giudici è lapidaria: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri che Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia».

Di fronte a queste deposizioni, rafforzate da molti altri riscontri e testimonianze, Dell’Utri decide di attaccare in blocco i pentiti, ipotizzando un complotto: tutti i collaboratori di giustizia, forse manovrati da qualcuno, si sarebbero messi d’accordo per calunniarlo e colpire politicamente Berlusconi. I giudici però ribattono che nessun pentito, quando ha cominciato a parlare, conosceva le versioni degli altri. E soprattutto che ogni collaboratore di giustizia sa e racconta solo un piccolo pezzo di verità, quello custodito dalla propria famiglia mafiosa.




LE ULTIME PAROLE DI BORSELLINO
Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995. La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994. Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia.
Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire». Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe», perché «quando fu arrestato si rifiutò di testimoniare il falso sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia, tra Berlusconi e la mafia». Nella polemica che ne segue, sono in molti a obiettare che per gli italiani onesti gli eroi non sono i mafiosi, ma le persone che hanno combattuto la mafia sacrificando la vita. E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire.

Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia». I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra.

«L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata... Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.»
L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi. Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992. La morte di Borsellino, con tutti i suoi misteri ancora irrisolti, a cominciare dal vergognoso depistaggio, con un falso pentito, dei primi tre processi sulla strage di via D’Amelio, ha impedito di chiarire, tra l’altro, anche a quale inchiesta si riferisse nella sua ultima intervista.


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Soldi che cadono dal cielo 
Neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito
 i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi

DI PAOLO BIONDANI


Silvio Berlusconi, nel processo di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, non è mai stato accusato di nulla. Subire estorsioni e non denunciarle non è reato. La vittima del racket rischia di finire sotto accusa solo se commette falsa testimonianza in tribunale, negando di aver subito estorsioni che risultino provate comunque. C’è però un delicatissimo capitolo del processo che lo riguarda personalmente: per molte udienze i giudici cercano di risolvere il mistero delle origini delle fortune di Berlusconi. Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende del Cavaliere, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari. È la questione illustrata dal regista Nanni Moretti, nel film Il Caimano, con la scena dei «soldi che cadono dal cielo» sulla scrivania di Berlusconi.

Durante il lungo processo a Dell’Utri, il tema diventa incandescente, perché diversi pentiti di mafia parlano di presunti investimenti milionari effettuati da boss come Bontate e Teresi proprio tramite Dell’Utri: soldi che, dopo la morte di quei capi-mafia, uccisi dai corleonesi, nessuno avrebbe più potuto rivendicare. La Procura di Palermo apre addirittura un’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri con un’ipotesi di riciclaggio, che alla fine però gli stessi pm devono archiviare: i pentiti possono citare solo presunte confidenze indirette dei boss che sono morti o non parlano, ma non sono in grado di fornire riscontri concreti.

La questione viene ovviamente approfondita anche nel processo a Dell’Utri, che di Berlusconi è stato il braccio destro fin da quei fatidici anni Settanta. Vengono così interrogati i consulenti tecnici dell’accusa e della difesa, incaricati di ricostruire con certezza i flussi dei capitali finiti nelle aziende edilizie e televisive di Berlusconi. Per la Procura, depone un ispettore della Banca d’Italia, Francesco Giuffrida; per la difesa, un professore universitario, Paolo Iovenitti. Lo scontro in aula è durissimo. Esaminati tutti gli atti, già il tribunale conclude che le accuse di riciclaggio non sono provate, per cui nei successivi gradi di giudizio la questione cade. Ma gli stessi giudici avvertono che neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi.

Il collegio presieduto dal giudice Leonardo Guarnotta, l’unico a entrare nel merito dei fatti, riassume così il risultato del processo: «Da parte di entrambi i consulenti tecnici, non è stato possibile risalire, in termini di assoluta certezza e chiarezza, all’origine, qualunque essa fosse, lecita o illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding del gruppo Fininvest». In altre parole, se è vero che non ci sono «prove positive» di investimenti collegabili alla mafia, per cui «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non si possono ritenere riscontrate», è anche vero, scrivono i giudici, che «la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa», visto che «nemmeno il professor Iovenitti è riuscito a fare chiarezza, pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest».

Nel tentativo di fugare dubbi così gravi, i giudici di Palermo hanno invitato più volte lo stesso Berlusconi a testimoniare. La prima deposizione viene fissata per l’11 luglio 2001. Berlusconi è presidente del Consiglio, per cui decide di avvalersi della prerogativa legale di essere sentito a Palazzo Chigi. Quindi tutto il tribunale, con avvocati e cancellieri, deve trasferirsi a Roma. La testimonianza però salta all’improvviso, perché Berlusconi oppone «indifferibili impegni di governo». L’intero tribunale torna a trasferirsi a Palazzo Chigi il 26 novembre 2002, ma anche questa deposizione va a vuoto: Berlusconi, in quel momento indagato nell’inchiesta per riciclaggio poi archiviata, preferisce avvalersi della facoltà di non rispondere.

Nella sentenza, che ricostruisce la mancata testimonianza del leader di Forza Italia nel processo a Dell’Utri, in particolare sul tema dell’origine dei capitali delle proprie società, i giudici chiudono il caso con queste parole: «Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice, ma, ad avviso del tribunale, si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, che incide sulla correttezza e trasparenza del suo operato di imprenditore, che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio».

Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, 
la vera storia di Silvio Berlusconi”, 
di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.



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La Vera Storia della Villa in Sardegna

Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità,   a cominciare da Tommaso Buscetta

Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità,
 a cominciare da Tommaso Buscetta

DI PAOLO BIONDANI

Il boss Pippo Calò, che tra gli anni Settanta e Ottanta vive a Roma sotto falso nome, investe somme enormi in speculazioni edilizie in Sardegna, realizzate attraverso costruttori-prestanome, riciclando così anche i riscatti dei sequestri. All’affare partecipano altri boss di Cosa nostra, che ripuliscono i profitti del narcotraffico, e due tesorieri-usurai della Banda della Magliana, Ernesto Diotallevi e Domenico Balducci. A gestire l’investimento in Sardegna, con il compito di comprare terreni vista mare e renderli edificabili con l’aiuto di politici e massoni, è Flavio Carboni, il faccendiere poi condannato come complice della colossale bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Dello stesso investimento parlano anche i collaboratori di giustizia della Banda della Magliana. Questo permette agli inquirenti di trovare riscontri sia dal versante di Cosa nostra, sia dal lato della criminalità romana: capitali, società, prestanome.

(…) Nel giugno 1993 Carboni crolla e ammette che, almeno per un gruppo di società, «i finanziamenti li ha procurati Balducci ottenendo un prestito da Calò». Mentre la sua storica segretaria testimonia che «il signor Mario», cioè Pippo Calò, «era solito frequentare il nostro ufficio per consegnare grosse somme di denaro a Carboni».

Nel processo che si è chiuso con la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri viene ricostruita anche la storia di un maxi-investimento mafioso in Sardegna, che nasconde un impressionante incrocio di storie criminali. Ne parlano decine di pentiti di comprovata attendibilità,   a cominciare da Tommaso Buscetta


Le indagini accertano che le prime ville costruite in Sardegna funzionano anche come covi. Una si trova a Punta Lada, a Porto Rotondo, e diventa il rifugio di Danilo Abbruciati: un killer della banda della Magliana, morto a Milano in un conflitto a fuoco nel 1982, mentre tenta di assassinare il vicepresidente dell’Ambrosiano e braccio destro di Calvi, Roberto Rosone.

Gli atti di compravendita di quella casa-covo rappresentano un «formidabile riscontro» alle rivelazioni dei pentiti: uno dei tre proprietari della villa trifamiliare è Domenico Balducci in persona, il tesoriere-usuraio della Magliana, che prima di essere ucciso il 16 ottobre 1981 in un agguato cede la sua quota al braccio destro di Calò a Roma, Guido Cercola. Calò e Cercola sono stati poi condannati all’ergastolo, con sentenza definitiva, come organizzatori della strage del rapido 904, il «treno di Natale» fatto esplodere in una galleria il 23 dicembre 1984: il primo atto di «terrorismo mafioso», con 17 morti e 267 feriti.

In questo quadro si inserisce anche Berlusconi. Nello stesso punto della costa sarda, Carboni possiede una villa meravigliosa, la stessa dove ha ospitato, oltre ai boss della Magliana, anche Roberto Calvi, prima di accompagnarlo a Londra, la città dove il banchiere, nel 1982, viene ucciso da ignoti killer che inscenano un finto suicidio. (…)

Pressato dai suoi finanziatori e incalzato dai debiti, Carboni deve vendere la sua villa di Punta Lada. E trova subito due compratori: un certo Lo Prete e il signor Attilio Capra De Carrè, che è già finito agli atti del processo, perché era uno degli ospiti della cena di Arcore nella notte del sequestro D’Angerio. Ma si tratta solo di un brevissimo passaggio intermedio. Perché i due compratori non tengono la proprietà: la rivendono a Silvio Berlusconi, che la ribattezza Villa Certosa.

Nella pericolosa partita con il faccendiere Carboni entra anche un altro affare, molto più ambizioso: il maxiprogetto «Olbia 2». Nel 1980 è proprio Carboni a contattare un grande amico sardo del Cavaliere, Romano Comincioli, per vendere ben mille ettari di terreni non ancora edificabili. Berlusconi partecipa all’affare sborsando 21 miliardi di lire. Sentito come testimone dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, Berlusconi conferma di «aver acquistato tramite Carboni i terreni» per «il progetto di creare una città satellite a Olbia». Il Cavaliere riconosce anche di aver utilizzato come schermo l’amico Comincioli, «che ha ricevuto da noi mano a mano i finanziamenti necessari per l’acquisto dei terreni, intestati a due società fiduciarie acquistate dal gruppo Fininvest».

I giudici concludono che «dunque, dalla viva voce di Berlusconi si è avuta la conferma dei suoi rapporti con Flavio Carboni e del ruolo di prestanome di Comincioli». Ma il Cavaliere non ha commesso reati: non c’è nessuna prova, riconoscono i giudici, che Berlusconi sapesse che dietro Carboni c’erano i capitali sporchi della mafia siciliana e della criminalità romana. Mentre Comincioli ammette di aver comprato i terreni «nell’interesse di Berlusconi» e conferma di aver «conosciuto Balducci, ma non Diotallevi e Abbruciati». E giura di «ignorare che Carboni
 fosse in mano a quegli usurai romani».

Comunque, questa volta, Dell’Utri non c’entra: dal 1979 si è dimesso dal gruppo Berlusconi per diventare manager, con il fratello gemello Alberto, di un chiacchieratissimo immobiliarista siciliano, Filippo Alberto Rapisarda.

Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.



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DI PAOLO BIONDANI

Marcello Dell’Utri, nel 1986, è sotto intercettazione a Milano per i suoi rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano, ormai condannato al maxi-processo come trafficante di eroina tra Italia e Stati Uniti. Dodici minuti dopo la mezzanotte del 29 novembre 1986, il manager di Publitalia riceve una telefonata da Berlusconi, che lo informa di aver subito un attentato. L’esordio è fulminante.

Berlusconi: «Allora è Vittorio Mangano che ha messo la bomba».
Dell’Utri: «Non mi dire, e come si sa?».
Berlusconi: «Da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza... È fuori».
Dell’Utri: «Ah, non lo sapevo neanche».
Berlusconi: «E questa cosa qui, da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba».
Dell’Utri: «Ah... perché, cioè non si spiega proprio».

Nella stessa telefonata l’imprenditore allude a un altro attentato, da lui subito nel 1975.

Berlusconi: «Poi, la bomba, fatta proprio rudimentale... con molto rispetto... perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire... quindi una cosa rispettosa e affettuosa».
Dell’Utri (ride): «Sì, sì, pazzesco... Comunque sentiamo, sì».
Berlusconi: «Non c’è altra spiegazione... è la stessa via Rovani come allora».
Dell’Utri: «Sì, sì... Adesso vediamo... Comunque credo anch’io che non ci sono altre richieste. Anche perché non ci sono, voglio dire. Si sarebbero fatti sentire, insomma, no?».
Berlusconi: «Va be’, niente, stiamo a vedere...».

A questo punto cambiano argomento, ma poi tornano sul discorso della bomba.

Berlusconi: «Mi hanno aperto un po’ gli occhi i carabinieri, un chiaro segnale estorsivo, e quindi ripensi che a undici anni fa...».
Dell’Utri: «Sì, ma non vedo altro neanch’io, pensandoci bene hai ragione, da dove può arrivare insomma?... In effetti, se è fuori, non avrei dei dubbi netti. Va be’, tu sei sicuro che è fuori?».
Berlusconi: «Me l’hanno detto loro (i carabinieri)... Ti passo Fedele».
Confalonieri: «Marcello, allora, sei d’accordo anche tu, no?».
Dell’Utri: «Sì, guarda, non sapevo che è fuori, ma se è fuori non ci sono dubbi, direi».
Confalonieri: «Non è un uomo di fantasia... Si ripete. Ha cominciato a dieci anni a fare così, ha quarantun anni adesso...».
Dell’Utri: «E poi anche con un attentato timido, solo per dire: sono qui...» (ride).
Confalonieri: «Come la terra con la croce nera, come l’altra volta, ti ricordi?».

I giudici osservano che in questa telefonata Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri parlano di due diversi attentati, commessi a undici anni di distanza. Il più grave è il primo: il 26 maggio 1975 esplode una bomba nella villa di Berlusconi in via Rovani a Milano. La casa è in restauro, l’ordigno sfonda i muri perimetrali e fa crollare il pianerottolo del primo piano, provocando danni ingenti. L’attentato viene però denunciato solo dall’intestatario formale della villa, Walter Donati, per cui viene collegato a Berlusconi solo in seguito. A quel punto le indagini raccolgono indizi su un paventato progetto di sequestro del figlio di Berlusconi, ma l’autore dell’attentato resta misterioso.

Nella telefonata intercettata, Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri paragonano quella bomba del 1975 a un nuovo ordigno, meno potente, esploso poche ore prima, il 28 novembre 1986. Come evidenziano i giudici, «questa telefonata dimostra che Berlusconi, Dell’Utri e Confalonieri non avevano alcun dubbio sulla riconducibilità a Mangano dell’attentato di undici anni prima». (…) Ma anche se «nessuno dei tre nutriva alcun dubbio nel ricondurre la bomba del 1975 a Mangano – sottolineano i giudici – nessuna indicazione fu offerta agli investigatori, anzi si decise di non denunciare direttamente quell’attentato».

Poche ore dopo, nel pomeriggio del 29 novembre 1986, Dell’Utri telefona a Berlusconi per riferirgli cosa ha scoperto sull’attentato del giorno prima. Gli dice testualmente: «Ho visto Tanino, che è qui a Milano». Il Tanino in questione è sicuramente Cinà: non lo negano né lui né Dell’Utri. Già questo è un riscontro: Cinà vedeva davvero Dell’Utri a Milano proprio nel periodo delle riscossioni mafiose rivelate dai pentiti, come confermano anche altre intercettazioni del 1987.

Dopo aver fatto il nome di «Tanino», Dell’Utri racconta quali notizie ha raccolto tramite quell’amico palermitano: assicura a Berlusconi non solo che Mangano è ancora detenuto, ma anche che può stare «tranquillissimo», nonostante l’attentato. E precisa di essere certo dell’estraneità di Mangano («è proprio da escludere categoricamente») anche se i carabinieri sospettavano il contrario. Analizzando la telefonata, i magistrati osservano che, per identificare l’autore di un attentato di matrice mafiosa, «Dell’Utri si rivolge a Cinà proprio perché gli è nota la sua mafiosità». E appunto perché ha raccolto informazioni dall’interno di Cosa nostra «può escludere con certezza la matrice di Mangano, anche se è notorio che i mafiosi, quando vogliono, riescono a delinquere anche in carcere».

I giudici trascrivono anche una battuta che Berlusconi, al telefono con Dell’Utri, dice di aver fatto ai carabinieri, lasciandoli sbalorditi, e cioè: «Trenta milioni li avrei anche pagati». Un passaggio giudicato «sintomatico dell’atteggiamento mentale dell’imprenditore disponibile a pagare, ma non a denunciare le richieste estorsive».

Una posizione confermata anche da un’intercettazione del 17 febbraio 1988. Berlusconi parla con un amico immobiliarista, Renato Della Valle, di altre minacce criminali che non ha mai denunciato né chiarito. Questa volta il Cavaliere è preoccupatissimo. E confida all’amico: «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle, pagherei tranquillo».

Le rivelazioni dei pentiti riconfermano questo quadro e aggiungono i pezzi mancanti. L’attentato del 1975 l’ha fatto Mangano, probabilmente per rientrare nel giro dei soldi di Arcore. L’ordigno del 1986 invece l’hanno collocato i catanesi. Per cui, come Dell’Utri riesce a sapere in tempo reale, i mafiosi palermitani e corleonesi non c’entrano. Riina però sa chi è stato. E ne approfitta per usare proprio Catania come base per le nuove intimidazioni, quelle che gli permettono di ricementare il rapporto Cinà-Dell’Utri e raddoppiare la posta.

Ricostruendo la storia di queste «affettuose» bombe mafiose, i giudici sottolineano tra l’altro che anche l’attentato del 1986 era rimasto «del tutto assente da ogni cronaca giornalistica». Eppure i boss di Cosa nostra sapevano tutto. E i pentiti hanno potuto raccontarlo.

Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, la vera storia di Silvio Berlusconi”, 
di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.



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