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giovedì 16 gennaio 2020

Bettino Craxi, Tangenti da Miliardi a Domicilio

Bettino Craxi, Tangenti da Miliardi a Domicilio


Ecco perché Fu Condannato

CRAXI ad HAMMAMET era LATITANTE Non era in ESILIO
#Craxi è stato l'Origine indubbia dello Schifo che ci Circonda...

Nel 17esimo anniversario della morte del segretario Psi, da latitante in 
Tunisia, si allarga la schiera di chi punta alla riabilitazione o, 
quantomeno, a "riaprire la discussione". Da Alfano a Orlando a Sala. Dal 
libro "Mani pulite" di Barbacetto, Gomez e Travaglio, ecco gli elementi 
principali che hanno portato a una delle due sentenze definitive di 
colpevolezza, quella per le tangenti della metropolitana milanese: 
"Sette-otto miliardi finiti direttamente a lui"



Il ministro degli Esteri Angelino Alfano è volato ad Hammamet per 
ricordare il diciassettesimo anniversario della morte di Bettino Craxi. 
Il ministro della giustizia Andrea Orlando si dice favorevole a 
“riaprire la discussione” sulla una “figura importante della sinistra”, 
pur ammettendone “gli errori”. E il sindaco di Milano Giuseppe Sala, 
eletto nel centrosinistra, apre alla possibilità di intitolargli una 
via, che potrebbe essere discussa già lunedì 23 gennaio in consiglio 
comunale. Proprio mentre si susseguono inchieste e processi per piccole 
e grandi corruzioni, mentre il numero uno dell’autorità anti-tangenti 
Raffaele Cantone gira l’Italia per esortare una “rivoluzione culturale” 
contro il malaffare, mentre si moltiplicano gli studi e i rapporti 
internazionali su danni e distorsioni inflitti al sistema economico e 
politico, si allarga la schiera di chi persegue la riabilitazione del 
segretario del Partito socialista italiano morto da latitante in Tunisia 
il 19 gennaio 2000.


In quel momento, uno dei politici simbolo della prima repubblica aveva 
collezionato due condanne definitive per 10 anni di reclusione (5 anni e 
6 mesi per la corruzione dell’Eni-Sai e 4 anni e 6 mesi per i 
finanziamenti illeciti della Metropolitana milanese), più altre condanne 
provvisorie, in primo e in secondo grado, per circa quindici anni (3 
anni in appello per Enimont, 5 anni e 5 mesi in Tribunale per Enel, 5 
anni e 9 mesi annullati con rinvio dalla Cassazione per la bancarotta 
del Conto protezione); e poi due assoluzioni (Cariplo e, a Roma, 
Intermetro) e una prescrizione (in appello per All Iberian). Non basta. 
L’allora segretario del Psi e già presidente del consiglio aveva 
ricevuto tre ordinanze di custodia cautelare, i cui procedimenti al 
momento della morte non erano stati definiti: Enel, fondi neri Eni e 
fondi neri Montedison.



In questa corsa alla riabilitazione, è utile ricordare i fatti specifici 
contestati allora a Craxi dai pm di Mani pulite e poi confermati in via 
definitiva in Cassazione. Sul fronte dei finanziamenti illeciti della 
Metropolitana milanese, ecco la ricostruzione della vicenda attraverso 
le parole di Silvano Larini, architetto e reo confesso collettore di 
mazzette per conto del segretario Psi, che il 7 febbraio 1993 mette fine 
alla sua latitanza e si consegna alle autorità italiane, diventando così 
un pilastro dell’accusa al leader Psi.



Quello che segue è un estratto del libro Mani pulite, la vera storia, di 
Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002).

BETTINO CRAXI, LE TANGENTI MM E LE VALIGETTE DI SOLDI IN PIAZZA DUOMO

Il 7 febbraio, accompagnato dall’avvocato Bovio, Larini si consegna a Di 
Pietro, che con il capitano Zuliani lo aspetta alla frontiera 
autostradale di Ventimiglia. Dopo uno spuntino in un ristorante-
pizzeria, viene accompagnato a Milano, nel carcere di Opera. Vi 
trascorrerà quattro giorni, riempiendo decine di pagine di verbali. 
L’architetto ammette le sue responsabilità. E racconta il suo ruolo di 
«fattorino delle tangenti» che sgorgavano dal sistema della 
metropolitana milanese:

Dovevo ricevere il denaro che Carnevale o Prada mi consegnavano e 
portarlo all’onorevole Craxi. Infatti, a partire dal 1987 e fino alla 
primavera del 1991, ho avuto modo di ricevere dai predetti 7 o 8 
miliardi complessivamente e ogni volta (salvo in un paio d’occasioni in 
cui li ho consegnati direttamente a Natali) li ho portati negli uffici 
dell’onorevole Craxi di piazza Duomo 19, a Milano, depositandoli nella 
stanza a fianco della sua […]. Posavo la borsa o il plico sul tavolo e 
la Enza [Tomaselli, la segretaria di Craxi] lo ritirava. Non le ho mai 
detto nulla, alla consegna, perché era assolutamente scontato di che 
cosa si trattasse […]. Ho raccolto 7-8 miliardi di tangenti sulla 
Metropolitana e in buona parte sono finiti personalmente a Craxi. 
Portavo i soldi al quarto piano di piazza Duomo 19. Ero io a 
confezionare il pacchetto, utilizzando buste marroncine. A volta le 
posavo sul tavolo della segretaria, a volte le lasciavo sul tavolo della 
camera di riposo di Bettino.



Fino al 1987 – ricorda – al finanziamento occulto pensava direttamente 
il presidente della Metropolitana milanese, Antonio Natali. Poi si pose 
il problema di sostituirlo. «Motivi di opportunità – spiega Larini ai 
magistrati – sconsigliavano al Psi di riproporlo, in quanto egli era 
stato inquisito dall’autorità giudiziaria di Milano per fatti di 
concussione. Natali fu eletto senatore e in tal modo fu “salvato” da un 
procedimento penale». Craxi e Natali offrirono a Larini la carica di 
presidente
 della Mm, che però rifiutò. «La scelta cadde allora su Claudio Dini», 
l’architetto che aveva lavorato nello studio di Ignazio Gardella, ma 
che, a quanto racconta Larini, non era considerato affidabile per la 
gestione delle tangenti:




Natali non aveva molta confidenza con lui e lo considerava un po’ 
bizzarro e pericoloso per il sistema, dal punto di vista di riscossione 
del denaro. Mi spiego. Natali mi disse che da tempo le imprese operanti 
nella metropolitana erano solite versare del denaro al sistema dei 
partiti e in particolare alla Dc, al Psi, al Pri, al Pci e al Psdi. 
Questo denaro veniva utilizzato in quegli anni dal Psi per il 
sostentamento della federazione milanese, ma anche per la cassa 
nazionale del Psi, all’occorrenza. Infatti ricordo che Balzamo in 
un’occasione mi diede atto che era a lui pervenuta una parte del denaro 
proveniente dalle contribuzioni degli imprenditori milanesi, dicendomi: 
«Meno male che sono arrivati i soldi di Milano, perché altrimenti non 
potevamo pagare gli stipendi».



Cosí Natali chiese che fosse Larini a occuparsi delle tangenti, al posto 
del «bizzarro» Dini: «Mi pregò di essere io la persona che riceveva per 
conto del Psi il denaro proveniente dalle imprese operanti negli appalti 
della Mm. Natali mi spiegò che alla materiale raccolta del denaro nei 
confronti degli imprenditori provvedevano Prada Maurizio [Dc] e 
Carnevale Mijno Luigi [Pci]». Ricevuto l’incarico da
 Natali, Larini si rivolse direttamente all’amico segretario del Psi:



Chiesi informazioni all’onorevole Bettino Craxi su come comportarmi e 
costui mi disse: «Va bene, occupatene». In altri termini, fu lo stesso 
Craxi a confermarmi l’incarico di provvedere a raccogliere il denaro 
proveniente dalla Mm. […] Tutto ciò che prendevo lo portavo sempre 
nell’ufficio dell’onorevole Craxi e non trattenevo nulla per me. Era un 
servizio che io rendevo a Craxi per amicizia e per comune militanza 
politica.

Non tutti, fa capire Larini, erano cosí disinteressati e corretti, e 
comunque sul giro delle tangenti aleggiava sempre il sospetto che 
qualcuno ne approfittasse:

Un giorno fui chiamato da Craxi il quale mi disse che Balzamo gli aveva 
fatto presente che l’onorevole Citaristi, segretario amministrativo 
della Dc, aveva disposto un’indagine interna nei confronti di Prada, 
perché sospettava che non tutto il denaro finisse nelle casse della Dc. 
Anche l’onorevole Craxi, verso la fine del 1989-inizio 1990, mi disse 
che pure lui aveva saputo che in giro si diceva che le imprese pagavano 
il 20 per cento del valore degli appalti, e che quindi io venivo 
«imbrogliato» da Prada e Carnevale. Io spiegai che era impossibile che 
le imprese pagassero una percentuale del genere, perché si sarebbero 
poste del tutto fuori mercato […]. In tale occasione pregai l’onorevole 
Craxi di sollevarmi da un incarico così scomodo; egli mi disse: «Va 
bene». E, seppure con un anno di ritardo, alla fine mi sostituì con 
l’onorevole Oreste Lodigiani [cioè con il segretario amministrativo 
milanese del Psi].



Larini, dunque, svela anche una parte dei veleni che intossicano i 
circuiti sotterranei di Tangentopoli: poiché la raccolta era illegale, 
sui «cassieri» non era possibile alcuna forma di controllo legale. Cosí 
tra i protagonisti del sistema regnavano la sfiducia e il sospetto che 
qualcuno approfittasse della situazione, facendo la «cresta» per sé. 
Cosa che, in diversi casi, è stata anche giudiziariamente accertata. […]


Quello stesso 17 dicembre [1993, al processo contro Sergio Cusani per la 
maxitangente Enimont], subito dopo Forlani, tocca anche a Bettino Craxi. 
Ma il suo interrogatorio è tutto un altro film. Un Di Pietro 
insolitamente calmo e remissivo gli pone la fatidica domanda, se fosse 
al corrente del finanziamento illegale ai partiti. Craxi si concede una 
delle sue lunghe pause. Poi spiega: «Né la Montedison, né il gruppo 
Ferruzzi, né il dottor Sama, né altri, né direttamente, né per 
interposta persona, a me personalmente hanno mai dato una lira. 
Diversamente, sia il gruppo Ferruzzi, sia la Montedison hanno versato 
contributi all’amministrazione del partito: da quando, non saprei, ma 
certamente da molti anni e fino alle elezioni del 1992». Poi, però, ecco 
una confessione in piena regola: «Ero comunque al corrente della natura 
non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito. L’ho 
cominciato a capire da quando portavo i pantaloni alla zuava!».

Di Pietro sorride, raggiante: «C’è qualcuno che, prima di lei, questa 
mattina, l’ha saputo solo qualche giorno fa». Una piccola rivincita su 
Forlani. Craxi non solo ammette, ma consegna anche dei documenti. E a un 
certo punto, con calcolata suspence, estrae di tasca un bigliettino e 
sibila: «Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, venne fuori questo foglietto 
scritto a mano, in cui lui aveva fatto un appunto che si riferiva a un 
quinquennio, con le entrate provenienti da società ed enti. Lui scrive 
che in quattro anni ha raccolto qualcosa come 186 miliardi. Circa 50 
miliardi all’anno». Ovviamente non registrati, quindi fuorilegge. Ecco 
perché Di Pietro è cosí pacato. Ecco perché non incalza: Craxi, con la 
sua brutale franchezza, si è messo in trappola da solo. Migliore 
conferma alle accuse non ci poteva essere. Chi si aspettava uno scontro 
al calor bianco rimane deluso. […]



Craxi, in seguito, fuori da un’aula di giustizia, racconterà a Bruno 
Vespa (nel libro Il duello) che per fare politica poteva contare sugli 
aiuti di tanti amici. «Nel senso che venivano da te e ti chiedevano di 
quanto avevi bisogno?», gli domanda Vespa. «Ci mancherebbe altro – 
risponde Craxi. – Non si permettevano. Facevano la fila come si fa dal 
dentista. Passavano dalla segretaria…».

Tratto da Mani pulite, la vera storia, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez 
e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002)

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giovedì 9 gennaio 2020

Bettino Craxi, quello che non c’è nel film Hammamet

Bettino Craxi, quello che non c’è nel film Hammamet


La lista della spesa delle Tangenti, tra case a New York e soldi alla tv dell’amante

Nell'ultimo film di Amelio si menzionano le due condanne definitive inflitte all'ex leader del Psi, che però sostiene di essere stato condannato perché "non poteva non sapere", mentre definisce le mazzette come un "peccato veniale". "Prendevamo i soldi per il partito", dice più volte Bettino interpretato da Favino. Dalle sentenze, però, emerge il contrario: l'ex presidente del consiglio era consapevole delle bustarelle incassate. E le usava tra le altre cose per "l’acquisto di un appartamento a New York", "per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv un contributo mensile di 100 milioni di lire" e per "l’acquisto di una casa e di un albergo (l’Ivanhoe) a Roma, intestati alla Pieroni"

“Questa prendila tu, perché se la prendono loro ci sporcano il nostro Paese”. “Questa” è una videocassetta in cui Bettino Craxi racconta la sua verità. “Cose – dice – che tutti gli altri non sanno, cose che neanche immaginano”. E dunque se la verità indicibile dell’ex presidente del consiglio fosse stata diffusa non si sarebbe fatta luce su uno dei periodi più controversi della storia recente. No, si sarebbe “sporcato il Paese“. Finisce così Hammamet di Gianni Amelio, il film sugli ultimi sei mesi di vita di Craxi. Un lavoro molto atteso a vent’anni esatti dalla morte dell’ex leader del Psi. Non potrebbe essere altrimenti visto che si tratta dell’uomo-simbolo di Tangentopoli.

Nel film di Amelio, però, non ci sono mazzette o bustarelle, o almeno non si vedono. Il Craxi del regista calabrese non gestisce denaro, anche se vive in una villa guardato a vista da una dozzina di uomini armati, che evidentemente paga di tasca sua. Amelio cita un paio di volte le due condanne definitive inflitte al protagonista, le ombre delle tangenti e di Mani Pulite fanno capolino sullo sfondo della villa tunisina, ma il problema è che a parlarne è sempre solo lui: Pierfrancesco Favino trasfigurato nei panni del segretario del Psi. L’imputato giudica se stesso e pare assolversi con formula piena. “Prendevamo i soldi per il partito“, dice Favino/Craxi a un vecchio politico democristiano non meglio identificato che va a trovarlo ad Hammamet. “Sì, rubavamo per il partito ma qualcosa attaccato alle mani ci è rimasto“, replica quello.

Stop: nel film di Amelio manca qualcuno che spieghi agli spettatori – magari a quelli più giovani – come quelle mazzette non servissero soltanto per finanziare i partiti ma rimanessero soprattutto attaccate alle mani di chi le prendeva. Le tangenti non erano un “peccato veniale“, come le definisce lo stesso Craxi immaginato da Amelio, ma hanno portato il Paese al tracollo facendo esplodere il debito pubblico e costringendo il governo di Giuliano Amato a fare una manovra da 93mila miliardi, a riformare le pensioni, a prelevare il 6 permille dai conti correnti dall’italiani.

Si dirà: Hammamet è un film, non è un documentario né un’inchiesta giornalistica. Vero, ma la sensazione che si ha alla fine del film è di compassione per uno statista dimenticato e tradito dal Paese che ha servito. Un uomo costretto a morire in esilio. Anche se era una latitanza. Per questo motivo, è forse il caso di ricordare due o tre fatti che dal film di Amelio non si percepiscono per il semplice fatto che non ci sono. Il 19 gennaio del 2000, al momento della morte, Craxi non aveva sulla testa solo “due pesanti condanne che considero ingiuste” (come le definisce il Bettino interpretato da Favino). Si tratta di due sentenze definitive per corruzione e finanziamento illecito a un totale dieci anni di carcere: aveva preso cinque anni e mezzo nel processo per le tangenti Eni-Sai, quattro anni e mezzo per quelle della Metropolitana milanese. In quel momento, però, erano in corso altri procedimenti che vennero estinti per “morte del reo“. Erano quattro in totale e tre si erano già conclusi con condanne: a tre anni per finanziamento illecito (la cosiddetta Maxitangente Enimont), cinque anni e cinque mesi per corruzione (tangenti Enel), cinque anni e nove mesi per il bancarotta fraudolenta (il conto Protezione). In primo grado, invece, Craxi era stato stato condannato – insieme a Silvio Berlusconi – al processo All Iberian: i reati accertati si prescriveranno poi in Appello e quindi in via definitiva in Cassazione.

È un procedimento che al suo interno contiene una serie di smentite a quanto affermato dal leader del Psi: non è stato condannato solo perché “non poteva non sapere”, ma sapeva tutto benissimo, non rubava per il partito, ma soprattutto per sé e per le persone a lui vicine. Come hanno ricostruito Peter Gomez, Marco Travaglio e Gianni Barbacetto nel libro Mani Pulite, 25 anni dopo (Paper First) indagando sui soldi di Craxi i pm hanno accertato l’esistenza di 150 miliardi di lire, movimentati da diversi prestanome. Uno si chiama Giorgio Tradati, era un suo compagno di scuola e sul conto Constellation Financiere e Northern Holding riceve tra il 1991 e 1992 ventuno miliardi di maxi tangente versata da Silvio Berlusconi dopo che la legge Mammì salva le reti Fininvest. Tradati ha raccontato ai pm che tutto era cominciato “nei primi anni ’80” quando “Bettino mi pregò di aprirgli un conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società panamense. Funzionava così: la prova della proprietà consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il procuratore del conto“. Su quel conto arriva un fiume di denaro: nel 1986 erano già 15 miliardi. Poi i conti si sdoppiano: nasce International Gold Coast, affiancato da Northern Holding, messo a disposizione da Hugo Cimenti. “Per i nostri – risponde Tradati – si usava il riferimento ‘Grain’. Che vuol dire grano“. Quindi scoppia Mani Pulite. “Il 10 febbraio ‘93 – continua Tradati – Bettino mi chiese di far sparire il denaro da quei conti, per evitare che fossero scoperti dai giudici diMani pulite. Ma io rifiutai e fu incaricato qualcun altro: so che hanno comperato anche 15 chili di lingotti d’oro…I soldi non finirono al partito, a parte 2 miliardi per pagare gli stipendi”. Sono le paghe dei giornalisti dell’Avanti!. A cosa servì il resto dei soldi?

“Che cos’erano tutti quei prelievi dai due conti svizzeri di Craxi?”, domanda il pm Di Pietro a Tradati. Che risponde: “Anzitutto servivano per finanziare una tv privata romana, la Gbr della signora Anja Pieroni“. “Ma coi soldi di uno dei due conti in Svizzera ci hanno pure comperato case?”. E Tradati: “Un appartamento a New York“. Per il partito? “No di certo“. E con l’altro conto svizzero? “Un appartamento a Barcellona“. La ricostruzione della procura è stata riconosciuta come provata dai giudici del processo All Iberian, sia dal Tribunale che da quelli della corte d’appello di Milano, ed è stata poi confermata dalla Cassazione. Scrivono i giudici del processo di secondo grado che “Craxi dispose prelievi sia a fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv (di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di 100 milioni di lire. Lo stesso Craxi, poi, dispose l’acquisto di una casa e di un albergo (l’Ivanhoe) a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla donna Craxi fa pagare anche “la servitù, l’autista e la segretaria”. Il leader del Psi dice a Tradati che bisogna “diversificare gli investimenti”. Il suo ex compagno di scuola eseguiva. Dalle indagini risultano diverse “operazioni immobiliari: due a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile“. E poi un prestito di 500 milioni per il fratello di Craxi, Antonio e per sua moglie Sylvie Sarda. Insomma non erano solo soldi rubati per finanziare i partiti.

Le sentenze smentiscono anche un’altra affermazione ripetuta più volte dai fedelissimi di Craxi e contenuta anche nel film, e cioè quella del leader del Ps condannato solo perché “non poteva non sapere”. Nella sentenza All Iberian si legge: “Craxi è incontrovertibilmente responsabile come ideatore e promotore dell’apertura dei conti destinati alla raccolta delle somme versategli a titolo di illecito finanziamento quale deputato e segretario esponente del Psi. La gestione di tali conti…non confluiva in quella amministrativa ordinaria del Psi, ma veniva trattata separatamente dall’imputato tramite suoi fiduciari… Significativamente Craxi non mise a disposizione del partito questi conti”. Ma non solo. “Non ha alcun fondamento – continua la corte d’Appello – la linea difensiva incentrata sul presunto addebito a Craxi di responsabilità di ‘posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti sugli stessi compiuti“. Altra convinzione dell’ex leader del Psi, contenuta anche in Hammamet, è che le condanne fossero legate a una sorta di vendetta nei suoi confronti. La corte europea dei diritti dell’uomo, interpellata dai legali dell’ex presidente del consiglio, non la pensa allo stesso modo. Il 31 ottobre del 2001, come ricordava Travaglio qualche tempo fa, i giudici di Strasburgo scrivono: “Non è possibile pensare che i rappresentanti della Procura abbiano abusato dei loro poteri”. Anzi, il procedimento “seguì i canoni del giusto processo” e le accuse ai giudici “non si fondano su nessun elemento concrete. Va ricordato che il ricorrente è stato condannato per corruzione e non per le sue idee politiche“. Non si sa se “sporca” il Paese, ma è una differenza fondamentale.

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sabato 4 gennaio 2020

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