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mercoledì 1 aprile 2020

Tutti i Nuovi Nomi con i Soldi nei Paradisi Fiscali

Tutti i Nuovi Nomi con i Soldi nei Paradisi Fiscali

Tutti i Nuovi Nomi con i Soldi nei Paradisi Fiscali

Tutti i Nuovi Nomi dei Panama Papers 


Emanuela Barilla, Adriano Galliani, il miliardario Stefano Pessina. E poi società riconducibili a Silvio Berlusconi e Flavio Briatore. Sono questi i nomi più importanti che l'Espresso pubblica venerdì 15 aprile, in una nuova inchiesta sui Panama Papers, il colossale archivio dello studio Mossack Fonseca. Nell'articolo, il settimanale rivela una seconda lista di italiani con i soldi offshore. Sono 100 in tutto, imprenditori, professionisti, manager di ogni parte d'Italia.



Tra le carte panamensi emerge tra l'altro il nome della Sport Image international delle Isole Vergini britanniche, una società della galassia di Silvio Berlusconi che una ventina di anni fa finì al centro di un’indagine giudiziaria per i pagamenti in nero ad alcuni calciatori del Milan, da Ruud Gullit e Marco Van Basten. Come amministratori della Sport Image, fondata nel 1989, sono indicati Adriano Galliani e altri due manager a quell’epoca targati Fininvest: Giancarlo Foscale e Livio Gironi. Struie invece, è una cassaforte, anche questa creata da Mossack Fonseca, di cui si sono serviti sia il leader di Forza Italia sia Flavio Briatore (benché i loro nomi non compaiano direttamente nelle carte panamensi). A metterla a loro disposizione fu l’avvocato britannico David Mills, creatore del sistema offshore da 775 milioni di euro per conto del capo della Fininvest.

L'Espresso ha ricostruito anche gli affari offshore di altri personaggi molto conosciuti dell'economia come Emanuela Barilla, azionista del gruppo del Mulino Bianco insieme ai fratelli Guido, Luca e Paolo. Dalle carte di Mossack Fonseca risulta che Emanuela Barilla ha costituito nel 2014 una offshore con sede alle Isole Vergini Britanniche, la Jamers international.

Stefano Pessina, 74 anni, nativo di Pescara, è invece uno dei manager più influenti dell’industria farmaceutica mondiale. Residente a Montecarlo da tempo, Pessina controlla la multinazionale Wallgreens Boots Alliance e il suo patrimonio personale è stato stimato 13,3 miliardi di dollari, inferiore in Italia solo ai Ferrero e a Leonardo Del Vecchio. I Panama Papers rivelano che Pessina, insieme alla compagna Ornella Barra, controlla una offshore con un'insegna quantomeno originale. Si chiama Farniente holding.

La premiata ditta Mossack Fonseca, avvocati in Panama, funzionava come un supermarket, un supermarket dell’offshore. Serve un trust in Belize? Eccolo. Una finanziaria alle British Virgin Island? Pronti. Dovete immatricolare esentasse un panfilo da 50 metri? A disposizione. Di tutto e per tutti. Dal capo di Stato al commerciante di provincia che vuol frodare il fisco.

Nell’arco di quarant’anni Jurgen Mossack e Ramon Fonseca hanno gestito la creazione di milioni di società. E adesso che il loro archivio è finito sui giornali di tutto il mondo, una trama infinita di affari segreti diventa d’improvviso visibile a tutti. I Panama Papers , svelati grazie al lavoro dell’International consortium of investigative journalists (Icij), sono la chiave per accedere a un giacimento di informazioni pressoché inesauribile. “L’Espresso”, in esclusiva per l’Italia, ha avuto accesso diretto alla banca dati panamense ed è in grado, per cominciare, di rivelare una prima lista di nomi italiani legati a società offshore che son o state create o gestite dallo studio Mossack Fonseca.

Le sorprese sono molte. L’elenco comprende l’attore Carlo Verdone e una star della tv come Barbara D’Urso . C’è Luca Cordero di Montezemolo , come il sito dell’Espresso ha già documentato nei giorni scorsi. Montezemolo risulta beneficiario economico di una società offshore che nel 2007 ha aperto un conto svizzero. Lo studio legale di Panama ha curato alcune transazioni riservate per conto dello stilista Valentino Garavani e del suo socio Giancarlo Giammetti . Nelle carte affiora anche il nome di una società che porta a un vecchio affare di Silvio Berlusconi: l’acquisto, a prezzi gonfiati, di diritti televisivi dalle major hollywoodiane. Acquisti che sono costati al patron di Fininvest una condanna a quattro anni di reclusione.

Tra i file dell’archivio viene infatti citata anche l’American Film Company (AFC), una offshore registrata nel ’92 alle British Virgin Islands (BVI) e presieduta da Rosemarie Flax. L’anno dopo la Principal Network, una delle società più riservate della galassia berlusconiana, compera proprio dalla AFC i diritti di due film: “Shadow Hunter” e “Amityville 1992”. Da notare che la AFC ha anche rapporti con dirigenti della Fininvest come Silvia Cavanna, di Rete Italia, e Luciana Paluzzi-Salomon, di “Silvio Berlusconi communications”. Cinque anni dopo la AFC non servirà più e il 4 dicembre 2008 sarà definitivamente cancellata dal registro delle Isole Vergini Britanniche.

L’archivio segnala anche il nome di un armatore importante come Giovanni Fagioli , mentre per l’ex calciatore uruguaiano Daniel Fonseca viene comunicata una residenza italiana, a Como, dove si è trasferito una volta conclusa la carriera agonistica per diventare procuratore. Tra i personaggi legati allo sport la lista comprende l’ex pilota di Formula Uno Jarno Trulli , che da alcuni anni ha preso la residenza in Svizzera. Anche il mondo del pallone è stato investito dalla bufera panamense. A parte vecchie conoscenze del calcio nostrano come gli ex giocatori Ivan Zamorano (cileno) e Clarence Seedorf, i Panama Papers citano anche alcune holding della famiglia di Erick Thohir, il magnate indonesiano che possiede l’Inter.

Meno noto al grande pubblico, ma molto influente nel mondo del petrolio, è il genovese Gian Angelo Perrucci che risulta il dominus di una società delle isole Seychelles creata con l’assistenza di Mossack Fonseca. Lagoon international group è invece il nome della offshore riconducibile a Stefano e Roberto Ottaviani, imprenditori romani. Gli Ottaviani sono noti alle cronache perché Stefano ha sposato la figlia di Gianni Letta, Marina.

Si resta a Roma con i protagonisti della storiaccia Telecom Sparkle, lo scandalo che sei anni fa fece molto rumore perché portò in carcere, tra gli altri, l’amministratore delegato di Fastweb, Silvio Scaglia, poi assolto. Nei file dei Panama Papers troviamo invece i nomi di alcuni dei condannati per riciclaggio e altri reati. A cominciare dall’ex senatore di Forza Italia, Nicola Di Girolamo , insieme ai broker Carlo Focarelli e Marco Toseroni . Guai con la giustizia anche per un altro cliente di Mossack Fonseca come il finanziere di origini siciliane Simone Cimino, arrestato a Milano e ancora sotto processo per reati finanziari.

Non è facile orientarsi nel ginepraio di sigle, contratti e perfino mail che raccontano anni e anni di operazioni riservate. Tra i circa 800 documenti che riportano a indirizzi italiani ce ne sono svariate decine che portano l’intestazione “The Bearer”. Significa che il capitale della società è al portatore. Niente da fare, allora. Con ogni probabilità l’identità del proprietario è custodita in una casella diversa dell’archivio e fare i collegamenti del caso è un’impresa quasi impossibile. In queste pagine, “l’Espresso” dà conto di un primo elenco di nomi legati per domicilio o provenienza a località della Penisola. Sono nomi in chiaro, cioè non schermati dalla dicitura “The Bearer”. Troviamo imprenditori, avvocati, commercialisti, albergatori, commercianti e immobiliaristi, residenti nelle grandi città come nella provincia profonda, da Savona a Bari, da Udine fino a Napoli. Ognuno risulta associato a una o più sigle offshore tra le oltre 200 mila archiviate nell’immenso database.

SISTEMA GLOBALE

In prima battuta, i clienti si rivolgono al loro consulente di fiducia, che quasi sempre è un gestore di patrimoni alle dipendenze di una banca o di una fiduciaria. Sono i funzionari degli istituti di credito a fare da ponte con lo studio legale panamense, che conta filiali in tutto il mondo, dal Lussemburgo a Cipro, dagli Stati Uniti alla Svizzera e Montecarlo. Gruppi finanziari globali come la svizzera Ubs e la britannica Hsbc compaiono centinaia di volte nei file segreti. E anche le italiane Unicredit e Ubi banca hanno fatto la loro parte nella creazione, via Lussemburgo, di complesse architetture societarie che portano in oasi esentasse come le Isole Vergini Britanniche. Per questo, adesso, non pare del tutto priva di argomenti l’autodifesa di Roman Fonseca. Il socio di Mossack dipinge il suo studio legale come l’ingranaggio di un sistema globale che tollera l’esistenza dei paradisi fiscali.

Di certo la macchina ha girato a pieno regime per decenni grazie alle leggi di uno stato come Panama che rifiuta di adeguarsi agli standard minimi di trasparenza raccomandati dalle organizzazioni internazionali. Anche gli italiani, come i cittadini di molti altri Paesi, hanno approfittato della situazione. Va detto che di per sé non è vietato controllare una società offshore. Basta segnalarlo nella dichiarazione dei redditi. Tocca quindi all’Agenzia delle Entrate verificare che sia tutto in regola. Intanto però, contattati da “l’Espresso”, alcuni dei personaggi chiamati in causa dai Panama Papers smentiscono il loro coinvolgimento nella vicenda, oppure minimizzano.

Nei giorni scorsi, per esempio, Montezemolo ha dichiarato di «non aver alcun conto all’estero». Sin dagli ultimi giorni di marzo, però, l’Espresso aveva fatto pervenire alcune domande al presidente di Alitalia in merito alla sua presenza nei file segreti con la società panamense Lenville Overseas. Domande rimaste senza risposta. Dopo che il nome del manager è stato pubblicato sul sito del nostro giornale, Montezemolo ha deciso di uscire allo scoperto con una dichiarazione pubblica. L’archivio di Mossack Fonseca contiene però numerosi documenti che tirano in ballo il presidente di Alitalia. Tra questi anche il formulario per l’apertura di un conto in una banca svizzera, 
con tanto di firma di Luca Cordero di Montezemolo.

CINEMA E TV

Carlo Verdone interpellato attraverso il suo legale, si è detto «sorpreso di essere accostato a una società con sede a Panama». Le carte raccontano che l’attore romano, uno dei più amati dal pubblico dai tempi di “Un sacco bello” del 1980, risulta azionista della Athilith Real Estate con sede, appunto, nel paradiso fiscale panamense. Nell’archivio di Mossack Fonseca è conservata anche la carta d’identità di Verdone. Il quale però sostiene, per bocca del suo avvocato, di «non sapere a che cosa sia servita quella società». Athilith è peraltro arrivata presto al capolinea. Costituita nell’autunno del 2009, a novembre del 2014 è stata messa in liquidazione. Un mese dopo, il 31 dicembre è stata cancellata dal registro delle Seychelles anche la Melrose Street Ltd, di cui risultava azionista Maria Carmela, in arte Barbara, D’Urso. Dal 14 agosto 2012, come attesta un documento di cui l’Espresso” ha ottenuto copia, i libri contabili della società sono stati conservati nella residenza romana della presentatrice televisiva, che viene anche qualificata come “director”, 
cioè amministratrice, della Melrose.

«Informazioni lacunose», ha reagito lo studio legale che assiste Barbara D’Urso. Quella società, spiega una nota inviata a “l’Espresso”dagli avvocati, «è stata aperta ai fini di un’operazione immobiliare che la signora D’Urso intendeva compiere in Costa Azzurra». Un’operazione che poi non si è concretizzata, prosegue la nota, e quindi Melrose è stata chiusa. Resta aperto un interrogativo: per quale motivo passare dalle Seychelles per gestire un affare in Francia?

FINANZA E CAMPARI

A quanto pare, le isole dell’Oceano Indiano sono una meta molto frequentata anche per i viaggi d’affari, viaggi offshore. Da quelle parti è approdato anche un manager come Marco Perelli Cippo , membro del board di Campari dopo esserne stato, fino a una dozzina di anni fa, l’amministratore delegato. Perelli Cippo è stato director e azionista della Allison Park Ltd delle Seychelles, liquidata nel luglio 2015, quando l’amministratore Campari dà anche disposizione di chiudere il conto bancario della società presso Société Générale Private Banking di Montecarlo. Tutte queste operazioni sono transitate dagli uffici di Mossack Fonseca. Contattato da “l’Espresso”, Perelli Cippo non ha risposto alle domande inviategli via mail.

Simone Cimino , 54 anni, è un ex dominus del private equity, alleato delle banche popolari francesi, noto alle cronache per il fallito progetto di acquistare la Fiat di Termini Imerese. La sua società di gestione del risparmio, Cape Natixis è finita nel 2012 in liquidazione coatta, dopo che nel giugno 2011 Cimino era stato arrestato a Milano per reati finanziari. Il processo è ancora in corso e l’imputato si proclama innocente. Intanto le carte di Panama attribuiscono a Cimino una offshore finora sconosciuta: la società Fento Private Invest Inc. delle Isole Vergini Britanniche, che risulta costituita il 22 dicembre 2009, mentre la crisi stava travolgendo il suo regno finanziario.

STILISTA OFFSHORE

Si torna a Panama con Valentino Garavani e il suo socio Giancarlo Giammetti. La offshore di quest’ultimo si chiama Jarra Overseas SA, registrata nel 2004 alle Isole Vergini Britanniche. Per Valentino la questione è più complessa. Esiste una società, anch’essa costituita alle Isole Vergini Britanniche nella stessa data della Jarra: è la Paramour Finance Ltd, capitale 50 mila dollari. Ma chi si nasconde dietro questo paravento? Perché, per la Paramour 
non esiste un’attribuzione chiara come per Giammetti.


La nebbia si dirada se si esaminano alcune vicende del passato. Basta andare indietro di alcuni anni, quando l’Agenzia delle entrate apre un’inchiesta su Valentino e Giammetti, prendendo di mira gli anni dal 2000 al 2006. La vertenza si è conclusa con un accordo tra le parti e il pagamento di una somma (mai resa nota) da parte dei due soci. Ebbene in quelle carte compaiono proprio le offshore appena citate, gestite dagli avvocati: Marino Bastianini, 
dello studio Carnelutti, e Marc Bonnant di Ginevra.

Alla richiesta di chiarimenti Bastianini dichiara a “l’Espresso”: «Su quelle società non avevo poteri o deleghe di firma». Come dire, il vero dominus era Bonnant, che, attraverso Bastianini, commenta: «Non ho niente da dire». E comunque la Paramour è stata sciolta nel 2013, mentre la Jarra risulta ancora attiva. In ogni caso, per l’erario italiano è ormai accertato che Valentino e Giammetti sono residenti a Londra da 10 anni.

PETROLIO E NAVI

I Panama Papers contengono le carte di un report approfondito condotto da Mossack Fonseca sul cliente Gian Angelo Perrucci, ricchissimo imprenditore del settore petrolifero che ha fatto fortuna in trent’ anni di carriera lontano dai riflettori della cronaca. Perrucci, a cui fa capo la società Burfield international delle Seychelles, viene definito nelle carte come “associate” di Atiku Abubakar, il vicepresidente della Nigeria dal 1999 al 2007. In Nigeria Perrucci è di casa insieme all’amico e socio Gabriele Volpi, imprenditore petrolifero. Abubakar è stato al centro di un’inchiesta del Senato americano per il presunto riciclaggio di 400 milioni di dollari tra il 2000 e il 2008.


I funzionari di Mossack Fonseca avevano messo sotto la lente anche le attività dell’armatore Giovanni Fagioli, classe 1965, cliente sensibile per via dell’incarico diplomatico di console della Bulgaria a Parma. Nessun problema, a quanto pare. Fagioli, che non ha risposto alle domande de “l’Espresso”, risulta beneficiario dal 2009 della offshore Great Alliance International Ltd con sede alle Isole Vergini Britanniche.

CATERING IN PARADISO

I fratelli Stefano e Roberto Ottaviani, controllano la Relais le Jardin, società di catering da oltre 20 milioni di euro di fatturato, con una lista-clienti che va dalla Banca d’Italia alla presidenza della Repubblica passando per l’Esercito, ambasciate di mezzo mondo e multinazionali di ogni settore. Famiglia importante, quella degli Ottaviani. Anche per via dei legami con Gianni Letta. Stefano Ottaviani ha sposato la figlia dell’ex braccio destro di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Relais le Jardin fa parte del gruppo lussemburghese Viva Gestions Immobilieres, ma i due fratelli non si sono fermati al Granducato. Sono andati ancora più lontano. In America centrale. Risultano infatti beneficiari di un trust con sede a Panama che si chiama Lagoon Investments Group.

L’EX PM AI CARAIBI

Silvio Sacchi è un ex magistrato di Napoli. Il suo addio alla toga è stato traumatico. Negli anni ‘90 è stato accusato di essersi fatto corrompere, quando era pm a Santa Maria Capua Vetere, da un imprenditore imputato di complicità con il clan mafioso dei casalesi. L’accusa era di aver accettato soldi e regali, tra il 1983 e il 1992, da quel suo indagato: vacanze gratis, valuta estera, sponsorizzazioni sportive, abiti firmati, pranzi e cene. Sacchi ha sempre respinto ogni addebito e si è difeso anche con un libro. Dopo un processo lunghissimo, è stato condannato dal tribunale, ma in appello, nel 2004, ha ottenuto la prescrizione. Nel febbraio 2006 il Csm lo ha destituito dalla magistratura.

Ora le carte segrete di Panama lo indicano come azionista di una offshore delle Isole Vergini, denominata Safra Investiments Ltd, che ha come secondo socio l’imprenditore napoletano Fabio Fraissinet . Contattato da “l’Espresso”, l’ex magistrato spiega di aver fatto un favore a Fraissinet che gli aveva chiesto di rilevare una parte delle quote, con l’accordo di restituirgliele in un secondo tempo. La offshore, sostiene Sacchi, non ha mai operato. Per questa operazione i due soci sono stati assistiti da un commercialista di Napoli. Salvatore Bizzarro , pure lui presente nei Panama Papers, anche con una società personale, la Bizzarro group incorporated con sede nello stato di Anguilla Britannica. Lo stesso commercialista si è rivolto allo studio di Panama per conto di una mezza dozzina di clienti, tra cui il gruppo di consulenza napoletano Caliendo Holding, intestatari di offshore sparse tra Isole Vergini, Nevada e Seychelles. Bizzarro non ha risposto alle nostre domande.

«IO NON C’ENTRO, PERO'...»

Il commercialista bolognese Domenico De Leo viene indicato nei Panama Papers come azionista di due offshore: Emmeci Grup Ltd delle Isole Vergini Britanniche e la Ttl holdings delle Seychelles. «La mia presenza era legata all’ingresso di fondi d’investimento internazionali in due aziende italiane con lo stesso nome delle offshore, la Emmeci spa e la Ttl spa», spiega De Leo, che vanta una carriera ricca di incarichi pubblici di prestigio (Aeroporto di Bologna, Rai World) e privati (Fineco, Rolo Banca e gruppo Unicredit). In sostanza, ha spiegato il professionista, i fondi una decina di anni fa gli chiesero di investire personalmente nelle holding. Storie vecchie, assicura il diretto interessato, che dichiara di aver ceduto le suo quote.

Anche il ligure Santiago Vacca , come il bolognese De Leo, è un professionista che si occupa di bilanci e consulenza aziendale. Vacca però è noto soprattutto per essere stato scelto da Silvio Berlusconi e dal governatore della Regione, Giovanni Toti, come coordinatore di Forza Italia nella provincia di Savona. Il suo nome compare nell’archivio di Mossack Fonseca come azionista di una offshore: la Eglin investments delle isole Seychelles. «Non ho quote di partecipazione in quella società», replica Vacca, che tra i vari incarichi ha anche quello di presidente del consiglio sindacale di Liguria Digitale, l’azienda informatica della Regione. Tra i documenti contenuti nel database ce n’è uno che però attesta un fatto che non coincide con la versione accreditata dall’esponente di Forza Italia. Si tratta di una paginetta che riassume l’azionariato della Eglin investments. E qui compare il nome di Vacca, con l’indirizzo di casa.

«È una società del tutto trasparente, perchè regolarmente dichiarata», taglia corto Gianfranco Morgano , che gestisce uno dei più conosciuti hotel di Capri, il Quisisana. La società a cui fa riferimento è la Jonston investments ltd, con sede nelle Isole Verrgini britanniche. In base ai documenti dell’archivio di Mossack Fonseca, la offshore attribuita a Morgano è molto recente. Risulta infatti costituita nel gennaio del 2015. «Sarebbe dovuta servire per un’operazione che non è andata a buon fine», spiega il patron del Quisisana. Insomma una offshore usa e getta. Pochi mesi di vita e poi via, nel cassonetto dei rifiuti. Mentre all’orizzonte si profila l’uragano Panama Papers.



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domenica 15 marzo 2020

Sanità, Tasse, Migranti e Lavoro i Disastri di Berlusconi

Sanità, Tasse, Migranti  e Lavoro tutti i Disastri di Berlusconi


Il Decennio nero dell’Italia
Ecco un libro per rinfrescare 
la memoria ed evitare di ricascarci
 E tanti si sono dimenticati chi è.


“Fatti e misfatti, disastri e bugie, leggi vergogna e delitti (senza castighi) dell’ometto di Stato che vuole ricomprarsi l’Italia per la quarta volta”.
Anticipiamo alcuni stralci dal capitolo “Quando c’era Lui”.

La lista nera dei disastri dei tre governi Berlusconi (1994, 2001-06, 2008-11) è talmente lunga che, da sola, occuperebbe un paio di Treccani. Ma ora Silvio Berlusconi si ripresenta per la settima volta agli elettori travestito da “usato sicuro” capace, europeista e moderato contro gli “incompetenti”, gli “antieuropeisti” e gli “estremisti”, e trova persino a sinistra chi ci casca o almeno finge di cascarci. Eugenio Scalfari ha dichiarato: “Con Berlusconi al governo le cose sono andate più o meno come andavano con gli altri governi”. Quindi è il caso di riepilogare in estrema sintesi l’inventario dei danni che è riuscito a fare ogni volta che ha avuto la ventura
di governarci e noi la sventura di essere governati da lui (…).

Vediamo come, negli anni delle vacche grasse, (non) approfittò della congiuntura favorevole. Salvo poi gridare al golpe e al complotto quando, nel 2011, tutti i nodi aggravati dalla crisi mondiale vennero al pettine.

Il decennio nero. Dai dati del Fondo monetario internazionale risulta che, fra il 2001 e il 2011, il nostro Pil reale pro capite, cioè la ricchezza prodotta da ogni singolo italiano tenendo conto dell’inflazione, sia crollato del 3,1%. La peggiore performance di tutta l’Eurozona, visto che nel Vecchio continente in quel periodo solo l’Italia ha avuto il segno “meno”. Nel decennio, 2001-2011, mentre noi precipitavamo, tutti gli altri Paesi crescevano: dai tedeschi (del 12,9%) ai greci, sì persino i greci. Non solo: se nel 2001 la differenza fra il nostro Pil pro capite e quello tedesco era di 1.610 euro, nel 2011 si era quadruplicata a 6.280 euro. Gli italiani in condizioni di povertà assoluta toccavano la cifra record di 3 milioni e mezzo. E l’occupazione cominciava a calare soprattutto fra i giovani, mentre il Cavaliere non trovava di meglio che produrre più precariato con la legge 30 del 2003. In quel decennio nero, Berlusconi ha governato 8 anni su 10.

La finanza pubblica. Nel 2011 l’ultima manovra della coppia B.-Tremonti lascia un’eredità pesante: misure senza copertura per 20 miliardi di euro. Soldi da trovare entro il 30 settembre 2012 con una riforma – neanche abbozzata – delle agevolazioni fiscali. In alternativa, scatteranno i tagli lineari. Il governo Monti si accolla gran parte del prezzo di impopolarità e trova poi, prelevandoli dai ceti più deboli, 13,4 di quei 20 miliardi, mentre il resto si trascinerà sui governi successivi.

Le tasse. “Meno tasse per tutti” e “Rivoluzione fiscale”. Sono questi gli slogan dominanti di tutte e sette le campagne elettorali berlusconiane. Peccato che poi, una volta al governo, il Cavaliere non sia mai riuscito a rivoluzionare né l’Irpef né tantomeno l’intero sistema tributario. Nel suo secondo governo, l’unico durato l’intera legislatura, la pressione fiscale (cioè l’incidenza delle tasse sul Pil) scende in cinque anni di un paio di decimali, senza che nessuno se ne accorga. Cioè (dati Istat) passa dal 40,1% del 2001 al 39,1 del 2005. Nei tre anni del suo terzo governo, senza una sola misura di austerità per fronteggiare la crisi finanziaria globale, la pressione fiscale aumenta addirittura: dal 41,3 del 2008 al 41,6 del 2011. Altro che “Meno tasse per tutti”: meno tasse solo per gli evasori e i frodatori, beneficati da continui condoni e “scudi fiscali”.

La spesa pubblica. La ragione del mega-flop fiscale è semplice: da quel grande populista che è sempre stato, B. non ha mai voluto ridurre la spesa corrente (come invece ha fatto Prodi), rendendo impossibile qualunque riduzione permanente del carico fiscale. Tra il 1999 e il 2005 (biennio D’Alema-Amato e quinquennio berlusconiano), la spesa per consumi finali della Pubblica amministrazione, dove si annidano i veri sprechi, è salita del 3,3% annuo. E si è fermata solo con il secondo governo Prodi (2006-2008). Vediamo il dettaglio, riassunto di recente da Sergio Rizzo su La Repubblica. La spesa pubblica nel 2001 superava di poco i 600 miliardi, mentre alla fine del 2011 sfiorava gli 800 (797.971), con un aumento monetario del 32,8 per cento e una crescita reale (detratta l’inflazione) dell’8,5: cioè di 62 miliardi. Soldi ben spesi? Vediamo. Di quei 62 miliardi, 57 sono finiti nel capitolo Welfare: per la stragrande maggioranza, pensioni. “Quel capitolo – scrive Rizzo – che assorbiva nel 2001 il 36,1% della spesa pubblica, aveva raggiunto nel 2011 il 40,4%. C’entra di sicuro l’esborso enorme per l’assistenza causato dalla crisi. Ma è incontestabile che la fetta più rilevante di quei 57 miliardi abbia a che fare con l’incremento della spesa previdenziale. Per giunta, mentre il conto per le pensioni saliva in modo inarrestabile, la spesa per l’istruzione si riduceva del 10,2%: 7 miliardi e mezzo reali svaniti. In quei dieci anni si è dunque investito sugli anziani disinteressandosi dei giovani”. Poi ci sono i soldi buttati. Per esempio in spese militari, aumentate del 35,2%, mentre quelle per la cultura scendevano del 31,7.

Debito pubblico. Il sedicente risanatore della finanza pubblica non ha fatto che aumentare vieppiù il debito pubblico: + 539 miliardi, quasi tutti merito suo. Per fortuna, il tanto deprecato euro, nello stesso periodo, faceva scendere gli interessi sui titoli di Stato di quasi 18 miliardi reali.

Sanità. Nel secondo governo Berlusconi il finanziamento al fondo sanitario nazionale esplode dai 71,3 miliardi del 2001 ai 93,2 del 2006 (da allora salirà in 10 anni di soli altri 20 miliardi). Motivo: le esigenze di rigore per l’ingresso nell’euro si sono esaurite e i bassi tassi di interesse consentono di aumentare i fondi alla sanità pubblica (e privata convenzionata, letteralmente scoppiata soprattutto nelle regioni governate dal centrodestra). Ma quella stagione, e ancor di più quella del terzo governo Berlusconi, verranno ricordate per ben altre ragioni: il fallimento del federalismo sanitario (voluto sia dal centrosinistra sia dal centrodestra), che avrebbe dovuto responsabilizzare le Regioni dando loro un budget e precisi standard da rispettare (i Lea: livelli essenziali di assistenza). Invece non funzionerà mai. Anzi – come spiega l’economista Gilberto Turati, specialista di politiche sanitarie dell’Università Cattolica di Roma – sotto Berlusconi si afferma il principio che, “per garantire i Lea, serve almeno la spesa dell’anno precedente, così le regole di fatto incentivano le Regioni a spendere sempre di più”. Così, per ingrassare le clientele e le mafie sanitarie, si taglia selvaggiamente sul sociale. Dal 2008 e al 2011 il fondo per le politiche per la famiglia passa da 346,5 milioni (2008) a 52,5 (2011), quello per le politiche giovanili da 137,4 milioni a 32,9, quello per la non autosufficienza che finanzia l’assistenza ai malati più gravi da 300 milioni a zero.

Scuola, università e grandi opere. Le “riforme” berlusconiane dell’istruzione pubblica, targate Letizia Moratti (2003) e Maria Stella Gelmini (2008), improntate a una filosofia “privatistico-confindustriale”, suscitano ostilità quasi unanimi di insegnanti, studenti e famiglie, senza risolvere i problemi principali del settore, anzi aggravandoli. Il terzo governo Berlusconi, poi, completa l’opera tagliando il fondo per il finanziamento ordinario dell’Università dai 7,4 miliardi del 2008 ai 6,9 del 2011. Tornerà sopra i 7 miliardi soltanto nel 2014.

Quanto invece alle inutili opere faraoniche, l’asso nella manica di Berlusconi, la Legge obiettivo, si è rivelata un disastro epocale per il bilancio pubblico. Avrebbe dovuto velocizzare la realizzazione delle infrastrutture garantendo prezzi certi? Ebbene, a fine 2011 risultavano ultimati appena il 10% dei lavori previsti, con i costi ovunque esplosi. Senza contare alcuni regalini maleodoranti tipo quelli gentilmente offerti dalla vicenda della corruzione al Mose di Venezia. Omaggi che, secondo uno studio del governo Monti, avrebbero fatto salire la spesa per gli appalti pubblici perfino del 40%.

Immigrazione. Il Berlusconi che oggi tuona contro l’immigrazione sparando cifre a casaccio (“È una bomba sociale: 630 mila clandestini”), è lo stesso che nel 2011 deliberò la partecipazione dell’Italia alla guerra in Libia contro il suo amico e compare Gheddafi, cedendo alle pressioni di Obama, Sarkozy e Napolitano, con il conseguente aumento esponenziale degli sbarchi. Ma non solo: porta la sua firma, oltreché i voti di FI, An e Lega Nord, la più grande sanatoria di immigrati “clandestini” o irregolari (circa 800 mila domande, di cui 694.224 accolte, nel solo 2002, in concomitanza con l’approvazione della legge Bossi-Fini). Nel 2003 è il governo Berlusconi a sottoscrivere senza batter ciglio la Convenzione europea detta “Dublino II”: chi sbarca in Italia resta in Italia. Nel 2009 il terzo governo B., sempre con i voti della Lega, vara una seconda mega-sanatoria di immigrati irregolari (294.744 domande accolte).

Le leggi vergogna. Che faceva Berlusconi mentre l’Italia andava in malora? Si occupava dei fatti suoi, con un’attenzione e una competenza davvero degni di miglior causa. Per scongiurare i due pericoli che nel 1993 l’avevano portato a creare Forza Italia: il fallimento delle sue aziende e la galera. Con una raffica di leggi vergogna da brivido. Noi qui riassumeremo soltanto le 60 che hanno portato vantaggi a lui, ai suoi cari, ai suoi amici (e amici degli amici mafiosi), ai suoi coimputati e alle sue aziende. Nei quattro settori chiave della giustizia, del fisco, della televisione e degli affari. Tutte leggi mai previste dai programmi elettorali di Forza Italia, o della Casa delle Libertà, o del Popolo delle Libertà, dunque mai votate dai cittadini. Infatti non riguardano tutti noi: riguardano soltanto lui e pochi altri fortunati vincitori.

LEGGI ANCHE
Colpevole di Evasione Fiscale
https://cipiri.blogspot.com/2018/04/silvio-berlusconi-e-colpevole-di.html




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giovedì 20 febbraio 2020

100 Milioni di Nativi Americani Massacrati

100 Milioni di Nativi Americani Massacrati


Il più grande genocidio della storia 
del genere umano per durata e perdita di vite umane, 
del tutto ignorato dai media!

L’olocausto degli Indiani d’America, conosciuto come i “500 anni di guerra” e il “Più Grande Olocausto del mondo nella storia del genere umano, come durata e perdita di vite umane.

Gli Indiani d’America popolavano l’intero continente americano, dalle gelide lande dell’Alaska fino alla punta meridionale del continente, la Terra del fuoco, gelide terre in prossimità dell’Antartico.

Lo sterminio di tutte le etnie “indie”, ovvero dei Nativi Americani, dal Nord America all’America Centrale fino al Sud America, è il più immane e devastante olocausto di tutti i tempi operato per mano degli Occidentali. L’olocausto dei nativi americani non fu solo lo sterminio di milioni di persone, fu qualcosa di più profondo. Fu, oltre l’eccidio, anche la totale distruzione delle loro avanzatissime culture molto più in contatto con la natura, la conoscenza delle piante e leggi dell’universo. Per avere un’idea della loro meravigliosa etica (vedi Il Codice Etico dei Nativi Americani alla fine dell’articolo).

Il massacrò iniziò praticamente pochi anni dopo la scoperta del continente americano e si concluse alla soglia della Prima Guerra Mondiale, quindi si sviluppò lungo un periodo di tempo molto vasto e difficilmente delimitabile. Le modalità del genocidio poi sono state molte, dall’eccidio vero e proprio di intere comunità sterminate sistematicamente con le armi da eserciti regolari o da soldataglie criminali assoldate alla bisogna per mantenere pulita l’immagine dei governi ufficiali, alla diffusione intenzionale di malattie endemiche come il vaiolo, alla distruzione delle piante e degli animali per impedire che gli indiani si nutrissero.

Gli Indiani d’America popolavano l’intero continente americano, dalle gelide lande dell’Alaska fino alla punta meridionale del continente, la Terra del fuoco, gelide terre in prossimità dell’Antartico.

“Il concetto di Hitler dei campi di concentramento, così come la praticità di genocidio devono molto, così ha affermato, ai suoi studi di storia inglese e degli Stati Uniti. Ammirava i campi per i prigionieri boeri in Sudafrica e quelli degli indiani nel selvaggio West; e spesso ha elogiato l’efficienza dello sterminio degli Stati Uniti – per fame e combattimenti irregolari – dei selvaggi rossi che non potevano essere conquistati con la prigionia “.
P. 202, “Adolf Hitler” di John Toland

Un pretesto che veniva usato contro gli Indiani era l’accusarli di “insensato tradizionalismo” ossia la loro legittima ostilità a sottomettersi ad usi e costumi che non gli appartenevano e il rivendicare diritti (se di rivendicazione si può parlare, perché chi da millenni vive in un determinato territorio ed esercita la sua sovranità su di esso, lo può ben considerare la propria Patria) su enormi porzioni di territorio, che i coloni non potevano sfruttare. Evidentemente la violazione della sovranità nazionale degli altri Paesi e la pretesa superiorità di uno stile di vita rispetto ad altri giudicati selvaggi e l’intervento violento per imporre quello stile di vita è una tradizione ben radicata nella cultura statunitense che perdura ancora oggi!

100 Milioni di Nativi Americani Massacrati


Oggi gli indiani sopravvissuti sono meno di 50mila di cui la maggior parte vivono in riserve e quelli che si sono invece integrati nella società americana sono considerati alla stregua di una razza inferiore. All’arrivo dei primi coloni gli indiani fecero “l’errore” di mostrarsi piuttosto accoglienti. Quando gli immigrati furono abbastanza numerosi, cominciarono ad uccidere e rivendicare come loro tutto il continente.

Le riserve divennero dei veri e propri lager in cui venivano date coperte infette da vaiolo e le donne venivano sterilizzate “per affrettare la risoluzione della questione indiana”. Così scomparvero i popoli custodi della saggezza americana, delle grandi praterie, degli altopiani, dei ghiacci e del deserto, vittime dell’immigrazione e, oggi, dei vuoti di memoria dei media in Genere.


29 dicembre 1890 – 29 dicembre 1890 – Il massacro di Wounded Knee, 
l’ultimo atto della “soluzione finale” degli americani! 
100 milioni di indiani annientati dai civili colonizzatori bianchi!
Anniversario dello sterminio di Wounded Knee: l’ultima strage di pellirosse – Quando gli indiani del capo Big Foot sventolando, disarmati, bandiera bianca furono MASSACRATI dal glorioso esercito degli Stati Uniti – E parliamo di uomini, donne, bambini e anziani...




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Salvini Non andava al Leoncavallo

Salvini Non andava al Leoncavallo


La Bufala dei trascorsi dell'ex ministro dell'interno 
nel centro sociale più famoso degli anni Novanta. 
Come tutte le leggende di successo anche questa merita di essere indagata
C’è una leggenda metropolitana che circola inesorabile e che si dipana tra titoli di giornale, ritratti a mezzo stampa e commenti social. La circostanza è clamorosa, quantomeno bizzarra. Eppure viene raccontata come se fosse normale, quasi con noia. Il leader della Lega Matteo Salvini, attuale vicepremier e ministro dell’interno, si sarebbe fatto le ossa, quantomeno avrebbe bazzicato con una certa solerzia, il centro sociale Leoncavallo di Milano, luogo simbolo dei movimenti degli anni Novanta. Media e commentatori, là fuori, paiono non avere dubbi: il passato centrosocialista del leghista viene dato per scontato. Citiamo a caso: «Il suo luogo di ritrovo era il Leoncavallo». «Frequentava il Leoncavallo». 
O un più immaginifico: «Dal Leoncavallo alle ruspe» (visto in un servizio televisivo su La7).

Se la cosa fosse vera non creerebbe alcun turbamento. Non sarebbe il primo caso di pendolarismo politico della storia italiana. Solo che basta grattare appena il rosso col quale viene dipinto il ritratto del giovane Salvini per scoprire che tutta questa vicenda non sta in piedi. Nondimeno, è proprio la smaccata falsità a rendere interessante la vicenda. Alcune cose le sappiamo con certezza. Sappiamo che, come l’altro Matteo (Renzi), Salvini prova a costruirsi una fama da personaggio televisivo. Abbiamo prove certe di quando esercita la sua voglia di essere sugli schermi comparendo da ospite al quiz televisivo Doppio Slalom, condotto da Corrado Tedeschi. Siamo nel 1985, l’imberbe concorrente ha dodici anni. Sappiamo anche che si iscrive ai giovani padani quando ancora frequenta il liceo, nel 1990, pochi mesi dopo che lo sgombero del Leoncavallo dell’agosto precedente, cui seguirono la rioccupazione e la ricostruzione del centro sociale che servì da miccia per innescare la valanga di autogestioni in tutto il paese che caratterizza tutto il decennio successivo.

Ma torniamo al giovane Salvini, e alla sua precoce simpatia leghista che cozza palesemente con la presunta passione per il Leoncavallo. Tre anni dopo la sua iscrizione alla Lega, siamo nel 1993, fa il suo ingresso in consiglio comunale. Viene eletto con duecento voti, al seguito del sindaco Marco Formentini. La Lega vince a Milano e sbarca dalla pedemontana in città. Lo fa utilizzando la propaganda securitaria e la retorica del decoro. Lo fa dichiarando guerra proprio ai centri sociali. Salvini entra a palazzo Marino non prima di aver partecipato a un altro gioco a quiz: questa volta si tratta de Il Pranzo è Servito, condotto da Davide Mengacci. Il quale conserva un’immagine dell’ospite dal futuro illustre che non corrisponde affatto alla raffigurazione leggendaria della quale stiamo risalendo le tracce: «Un ragazzotto di belle speranze, sembrava uno yuppie coi capelli lunghi», ha detto di recente.



Il mistero del dilagare di una panzana tanto evidente si infittisce. Ma prima di proseguire dobbiamo rileggere le analisi di Primo Moroni su  postfordismo e nuova destra sociale. La conquista leghista della metropoli, scriveva Moroni esattamente nei giorni in cui Formentini diventava sindaco, segna il passaggio di scala: dalla difesa del piccolo distretto produttivo alla metropoli, dall’illusione della protezione della rete locale all’articolazione del consenso politico più diffuso. Il successo della Lega è conseguenza della capacità di utilizzare i media (Bossi è da subito un animale da talk show), costruire immaginario, intercettare le ambivalenze. Salvini fa il suo apprendistato in questa temperie. Prende appunti, impara che dalla difesa della città alla difesa della nazione il passo è breve. Capisce che quando lo spazio pubblico diventa spazio privato il passaggio successivo è: “Prima gli italiani”.

Arriviamo alla testimonianza del protagonista di questa storia. Prendiamo in mano Secondo Matteo, l’autobiografia che il leader leghista ha dato alle stampe nella primavera del 2016. Ricostruendo la sua militanza nella Lega fin dalle origini, cioè da quando andava al liceo Manzoni, dove ovviamente se lo ricordano come tutt’altro che simpatizzante per qualsivoglia sinistra, anche la più moderata, Salvini ricorda: «Io nello storico centro sociale milanese avevo messo piede una sola volta. Per un concerto. Quando la politica ancora non mi interessava». Altra certezza: una fugace apparizione viene ingigantita fino a diventare presenza costante tra le mura graffitate del Leo. C’è di più: alcuni militanti del Leoncavallo ricordano di quella unica presenza del leghista al centro sociale. Raccontano di quando venne riconosciuto in quanto giovane leghista e descrivono come alcuni leoncavallini che frequentavano la stessa scuola di Salvini in qualche modo impedirono che la situazione degenerasse. Tanto basta perché la palla di neve invece di sciogliersi al sole divenga slavina, fino alla patente di «assiduo frequentatore» attribuita da Wikipedia a Salvini.

Probabilmente alla base della valanga cazzara c’è una provocazione tirata fuori dallo stesso futuro inquilino del Viminale. Si era all’indomani degli scontri del 10 settembre 1994. In quel giorno, dopo mesi di angherie, sgomberi e criminalizzazioni ad opera della giunta di Formentini, sostenuta da una maggioranza del quale lo stesso Salvini fa parte, un corteo di almeno ventimila persone attraversa il centro di Milano. Arrivati in piazza Cavour, i manifestanti chiedono di arrivare fino a piazza Duomo. Di fronte all’ennesimo rifiuto da parte degli apparati di sicurezza, decidono di forzare il blocco e costringono la polizia a fuggire. Seguono scontri durissimi che si concludono con la marcia fino all’attuale sede del Leoncavallo, quella di via Watteau. In quei giorni di fuoco il giovane Salvini, da debuttante consigliere comunale decide di spararla grossa per guadagnarsi la sua prima apparizione nelle pagine locali. Ed esclama in aula: «Chi non ha mai frequentato un centro sociale? Io sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni…». Questa specie di captatio retorica («Pensate, ci andavo anche io!») contiene una delle polpette avvelenate che il giovane e ancora inesperto Salvini sta imparando a confezionare: gli è utile dividere i manifestanti in violenti e pacifici: «Gli incidenti sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e condivisibili, ma sono stati strumentalizzati».



A questo punto, chi ha avuto la pazienza di seguire la nostra digressione avrà fatto mente locale. E si sarà figurato la pistola fumante, l’altra presunta prova schiacciante del leggendario passato leoncavallino di Matteo Salvini. Siamo al 1997. La Lega Nord di Umberto Bossi è nel pieno della sua fase secessionista, non ha ancora ricucito con Silvio Berlusconi e ha tutto l’interesse di presentarsi come vera forza post-ideologica. È in questo contesto che Bossi celebra prima il referendum per l’indipendenza della Padania e poi mette in piedi una pantomima di elezioni per eleggere un parlamento di cartapesta, che avrà la sua prima sede nei pressi di Mantova. Alla competizione elettorale, celebrata con urne sparse in mille gazebo sparpagliati a nord del sacro fiume Po, partecipa un drappello di liste civetta, in apparente concorrenza tra loro ma in realtà composte (con l’eccezione del simbolo presentato dai radicali della Lista Bonino Pannella) da ferventi leghisti. C’è la Destra padana, ci sono i Cattolici padani e (insieme ad altri otto simboli che riproducono con involontario umorismo le correnti politiche tradizionali) ci sono i Comunisti Padani cui aderisce proprio Matteo Salvini. È lui stesso, sempre dalle pagine della sua autobiografia, ad essere cosciente di come quella pantomima di democrazia e quell’esercizio ideologico funzionale a spettacolarizzare la nascita di una nazione inventata, possano essere travisati: «Qualche anno dopo – racconta – mi presentai alle elezioni per il Parlamento della Padania con i Comunisti del Nord, sfoggiando un simbolo che raffigurava un Che Guevara su sfondo verde».

Analizzando rumor e leggende metropolitane, nel 1944 lo psicologo sociale R. H. Knapp fece una prima categorizzazione del fenomeno. Accanto alle leggende che esprimono speranze o timori, vi sono quelle più frequenti che danno una forma inconsueta eppure non casuale a concetti e che non possono non essere articolati in altri modi, magari per paura della disapprovazione. Ecco perché non basta diffondere la versione dello stesso Salvini sulla sua frequentazione antagonista e non bastano i dati di fatto per smentire la diceria. Questo è uno di quei casi in cui ci si imbatte nell’ostinata professione di fede che caratterizza soltanto le leggende metropolitane più interessanti. Alcuni addirittura aggiungono dettagli. Descrivono il giovane Salvini in poncho e indumenti andini, a pare di sentire la colonna sonora degli Inti Illimani in sottofondo (le leggende metropolitane spesso si combinano coi cliché). È il segno che questa storia ci interessa perché rivelatrice del senso comune. Il futuro ministro dell’interno intento a frequentare il centro sociale simbolo dei primi anni Novanta si materializza qui davanti a noi perché aggancia convinzioni sotterrane, collima con alcune infrastrutture di pensiero inconfessabile,
 fa il paio con sottotrame prepolitiche utili a comprendere il nostro tempo.



Si dirà, e questa volta non a torto, che il fatto che persino Salvini frequentasse il Leoncavallo sarebbe soltanto la conferma della centralità degli spazi occupati nella vita sociale delle nostre città, della loro capacità di attirare utenti al di là delle appartenenze. Qualche tempo fa si diffuse una foto che ritraeva un presunto Nigel Farage nelle vesti di un giovane punk. Al leader dello Ukip, la formazione ultraconservatrice che ha lavorato più di ogni altra per dare un senso reazionario alla Brexit, veniva attribuita una giovinezza di trasgressione sottoculturale anche se negli anni del punk Farage era un operatore finanziario specializzato in materie prime alla City. La storia inventata del giovane Farage punk fa il paio con quella leggendaria del giovane Salvini simpatizzante post-autonomo. Anche quest’ultima, rafforza l’ideologia del né di destra né di sinistra, il concetto che in fondo oggi per «difendere i più deboli» (l’espressione è di Salvini, sempre dal suo libro) serva liberarsi dagli steccati ideologici per innalzare barriere e scatenare la caccia ai più poveri. Al tempo del marxismo di estrema destra di Diego Fusaro, delle balle rossobrune su Thomas Sankara contro le migrazioni e Pier Paolo Pasolini anti-antifascista, per Matteo Salvini un passato da leoncavallino, un presente da ministro di estrema destra. In futuro, chissà.

*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura





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giovedì 16 gennaio 2020

Bettino Craxi, Tangenti da Miliardi a Domicilio

Bettino Craxi, Tangenti da Miliardi a Domicilio


Ecco perché Fu Condannato

CRAXI ad HAMMAMET era LATITANTE Non era in ESILIO
#Craxi è stato l'Origine indubbia dello Schifo che ci Circonda...

Nel 17esimo anniversario della morte del segretario Psi, da latitante in 
Tunisia, si allarga la schiera di chi punta alla riabilitazione o, 
quantomeno, a "riaprire la discussione". Da Alfano a Orlando a Sala. Dal 
libro "Mani pulite" di Barbacetto, Gomez e Travaglio, ecco gli elementi 
principali che hanno portato a una delle due sentenze definitive di 
colpevolezza, quella per le tangenti della metropolitana milanese: 
"Sette-otto miliardi finiti direttamente a lui"



Il ministro degli Esteri Angelino Alfano è volato ad Hammamet per 
ricordare il diciassettesimo anniversario della morte di Bettino Craxi. 
Il ministro della giustizia Andrea Orlando si dice favorevole a 
“riaprire la discussione” sulla una “figura importante della sinistra”, 
pur ammettendone “gli errori”. E il sindaco di Milano Giuseppe Sala, 
eletto nel centrosinistra, apre alla possibilità di intitolargli una 
via, che potrebbe essere discussa già lunedì 23 gennaio in consiglio 
comunale. Proprio mentre si susseguono inchieste e processi per piccole 
e grandi corruzioni, mentre il numero uno dell’autorità anti-tangenti 
Raffaele Cantone gira l’Italia per esortare una “rivoluzione culturale” 
contro il malaffare, mentre si moltiplicano gli studi e i rapporti 
internazionali su danni e distorsioni inflitti al sistema economico e 
politico, si allarga la schiera di chi persegue la riabilitazione del 
segretario del Partito socialista italiano morto da latitante in Tunisia 
il 19 gennaio 2000.


In quel momento, uno dei politici simbolo della prima repubblica aveva 
collezionato due condanne definitive per 10 anni di reclusione (5 anni e 
6 mesi per la corruzione dell’Eni-Sai e 4 anni e 6 mesi per i 
finanziamenti illeciti della Metropolitana milanese), più altre condanne 
provvisorie, in primo e in secondo grado, per circa quindici anni (3 
anni in appello per Enimont, 5 anni e 5 mesi in Tribunale per Enel, 5 
anni e 9 mesi annullati con rinvio dalla Cassazione per la bancarotta 
del Conto protezione); e poi due assoluzioni (Cariplo e, a Roma, 
Intermetro) e una prescrizione (in appello per All Iberian). Non basta. 
L’allora segretario del Psi e già presidente del consiglio aveva 
ricevuto tre ordinanze di custodia cautelare, i cui procedimenti al 
momento della morte non erano stati definiti: Enel, fondi neri Eni e 
fondi neri Montedison.



In questa corsa alla riabilitazione, è utile ricordare i fatti specifici 
contestati allora a Craxi dai pm di Mani pulite e poi confermati in via 
definitiva in Cassazione. Sul fronte dei finanziamenti illeciti della 
Metropolitana milanese, ecco la ricostruzione della vicenda attraverso 
le parole di Silvano Larini, architetto e reo confesso collettore di 
mazzette per conto del segretario Psi, che il 7 febbraio 1993 mette fine 
alla sua latitanza e si consegna alle autorità italiane, diventando così 
un pilastro dell’accusa al leader Psi.



Quello che segue è un estratto del libro Mani pulite, la vera storia, di 
Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002).

BETTINO CRAXI, LE TANGENTI MM E LE VALIGETTE DI SOLDI IN PIAZZA DUOMO

Il 7 febbraio, accompagnato dall’avvocato Bovio, Larini si consegna a Di 
Pietro, che con il capitano Zuliani lo aspetta alla frontiera 
autostradale di Ventimiglia. Dopo uno spuntino in un ristorante-
pizzeria, viene accompagnato a Milano, nel carcere di Opera. Vi 
trascorrerà quattro giorni, riempiendo decine di pagine di verbali. 
L’architetto ammette le sue responsabilità. E racconta il suo ruolo di 
«fattorino delle tangenti» che sgorgavano dal sistema della 
metropolitana milanese:

Dovevo ricevere il denaro che Carnevale o Prada mi consegnavano e 
portarlo all’onorevole Craxi. Infatti, a partire dal 1987 e fino alla 
primavera del 1991, ho avuto modo di ricevere dai predetti 7 o 8 
miliardi complessivamente e ogni volta (salvo in un paio d’occasioni in 
cui li ho consegnati direttamente a Natali) li ho portati negli uffici 
dell’onorevole Craxi di piazza Duomo 19, a Milano, depositandoli nella 
stanza a fianco della sua […]. Posavo la borsa o il plico sul tavolo e 
la Enza [Tomaselli, la segretaria di Craxi] lo ritirava. Non le ho mai 
detto nulla, alla consegna, perché era assolutamente scontato di che 
cosa si trattasse […]. Ho raccolto 7-8 miliardi di tangenti sulla 
Metropolitana e in buona parte sono finiti personalmente a Craxi. 
Portavo i soldi al quarto piano di piazza Duomo 19. Ero io a 
confezionare il pacchetto, utilizzando buste marroncine. A volta le 
posavo sul tavolo della segretaria, a volte le lasciavo sul tavolo della 
camera di riposo di Bettino.



Fino al 1987 – ricorda – al finanziamento occulto pensava direttamente 
il presidente della Metropolitana milanese, Antonio Natali. Poi si pose 
il problema di sostituirlo. «Motivi di opportunità – spiega Larini ai 
magistrati – sconsigliavano al Psi di riproporlo, in quanto egli era 
stato inquisito dall’autorità giudiziaria di Milano per fatti di 
concussione. Natali fu eletto senatore e in tal modo fu “salvato” da un 
procedimento penale». Craxi e Natali offrirono a Larini la carica di 
presidente
 della Mm, che però rifiutò. «La scelta cadde allora su Claudio Dini», 
l’architetto che aveva lavorato nello studio di Ignazio Gardella, ma 
che, a quanto racconta Larini, non era considerato affidabile per la 
gestione delle tangenti:




Natali non aveva molta confidenza con lui e lo considerava un po’ 
bizzarro e pericoloso per il sistema, dal punto di vista di riscossione 
del denaro. Mi spiego. Natali mi disse che da tempo le imprese operanti 
nella metropolitana erano solite versare del denaro al sistema dei 
partiti e in particolare alla Dc, al Psi, al Pri, al Pci e al Psdi. 
Questo denaro veniva utilizzato in quegli anni dal Psi per il 
sostentamento della federazione milanese, ma anche per la cassa 
nazionale del Psi, all’occorrenza. Infatti ricordo che Balzamo in 
un’occasione mi diede atto che era a lui pervenuta una parte del denaro 
proveniente dalle contribuzioni degli imprenditori milanesi, dicendomi: 
«Meno male che sono arrivati i soldi di Milano, perché altrimenti non 
potevamo pagare gli stipendi».



Cosí Natali chiese che fosse Larini a occuparsi delle tangenti, al posto 
del «bizzarro» Dini: «Mi pregò di essere io la persona che riceveva per 
conto del Psi il denaro proveniente dalle imprese operanti negli appalti 
della Mm. Natali mi spiegò che alla materiale raccolta del denaro nei 
confronti degli imprenditori provvedevano Prada Maurizio [Dc] e 
Carnevale Mijno Luigi [Pci]». Ricevuto l’incarico da
 Natali, Larini si rivolse direttamente all’amico segretario del Psi:



Chiesi informazioni all’onorevole Bettino Craxi su come comportarmi e 
costui mi disse: «Va bene, occupatene». In altri termini, fu lo stesso 
Craxi a confermarmi l’incarico di provvedere a raccogliere il denaro 
proveniente dalla Mm. […] Tutto ciò che prendevo lo portavo sempre 
nell’ufficio dell’onorevole Craxi e non trattenevo nulla per me. Era un 
servizio che io rendevo a Craxi per amicizia e per comune militanza 
politica.

Non tutti, fa capire Larini, erano cosí disinteressati e corretti, e 
comunque sul giro delle tangenti aleggiava sempre il sospetto che 
qualcuno ne approfittasse:

Un giorno fui chiamato da Craxi il quale mi disse che Balzamo gli aveva 
fatto presente che l’onorevole Citaristi, segretario amministrativo 
della Dc, aveva disposto un’indagine interna nei confronti di Prada, 
perché sospettava che non tutto il denaro finisse nelle casse della Dc. 
Anche l’onorevole Craxi, verso la fine del 1989-inizio 1990, mi disse 
che pure lui aveva saputo che in giro si diceva che le imprese pagavano 
il 20 per cento del valore degli appalti, e che quindi io venivo 
«imbrogliato» da Prada e Carnevale. Io spiegai che era impossibile che 
le imprese pagassero una percentuale del genere, perché si sarebbero 
poste del tutto fuori mercato […]. In tale occasione pregai l’onorevole 
Craxi di sollevarmi da un incarico così scomodo; egli mi disse: «Va 
bene». E, seppure con un anno di ritardo, alla fine mi sostituì con 
l’onorevole Oreste Lodigiani [cioè con il segretario amministrativo 
milanese del Psi].



Larini, dunque, svela anche una parte dei veleni che intossicano i 
circuiti sotterranei di Tangentopoli: poiché la raccolta era illegale, 
sui «cassieri» non era possibile alcuna forma di controllo legale. Cosí 
tra i protagonisti del sistema regnavano la sfiducia e il sospetto che 
qualcuno approfittasse della situazione, facendo la «cresta» per sé. 
Cosa che, in diversi casi, è stata anche giudiziariamente accertata. […]


Quello stesso 17 dicembre [1993, al processo contro Sergio Cusani per la 
maxitangente Enimont], subito dopo Forlani, tocca anche a Bettino Craxi. 
Ma il suo interrogatorio è tutto un altro film. Un Di Pietro 
insolitamente calmo e remissivo gli pone la fatidica domanda, se fosse 
al corrente del finanziamento illegale ai partiti. Craxi si concede una 
delle sue lunghe pause. Poi spiega: «Né la Montedison, né il gruppo 
Ferruzzi, né il dottor Sama, né altri, né direttamente, né per 
interposta persona, a me personalmente hanno mai dato una lira. 
Diversamente, sia il gruppo Ferruzzi, sia la Montedison hanno versato 
contributi all’amministrazione del partito: da quando, non saprei, ma 
certamente da molti anni e fino alle elezioni del 1992». Poi, però, ecco 
una confessione in piena regola: «Ero comunque al corrente della natura 
non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito. L’ho 
cominciato a capire da quando portavo i pantaloni alla zuava!».

Di Pietro sorride, raggiante: «C’è qualcuno che, prima di lei, questa 
mattina, l’ha saputo solo qualche giorno fa». Una piccola rivincita su 
Forlani. Craxi non solo ammette, ma consegna anche dei documenti. E a un 
certo punto, con calcolata suspence, estrae di tasca un bigliettino e 
sibila: «Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, venne fuori questo foglietto 
scritto a mano, in cui lui aveva fatto un appunto che si riferiva a un 
quinquennio, con le entrate provenienti da società ed enti. Lui scrive 
che in quattro anni ha raccolto qualcosa come 186 miliardi. Circa 50 
miliardi all’anno». Ovviamente non registrati, quindi fuorilegge. Ecco 
perché Di Pietro è cosí pacato. Ecco perché non incalza: Craxi, con la 
sua brutale franchezza, si è messo in trappola da solo. Migliore 
conferma alle accuse non ci poteva essere. Chi si aspettava uno scontro 
al calor bianco rimane deluso. […]



Craxi, in seguito, fuori da un’aula di giustizia, racconterà a Bruno 
Vespa (nel libro Il duello) che per fare politica poteva contare sugli 
aiuti di tanti amici. «Nel senso che venivano da te e ti chiedevano di 
quanto avevi bisogno?», gli domanda Vespa. «Ci mancherebbe altro – 
risponde Craxi. – Non si permettevano. Facevano la fila come si fa dal 
dentista. Passavano dalla segretaria…».

Tratto da Mani pulite, la vera storia, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez 
e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002)

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Nell'ultimo film di Amelio si menzionano le due condanne definitive inflitte all'ex leader del Psi, 
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giovedì 9 gennaio 2020

Bettino Craxi, quello che non c’è nel film Hammamet

Bettino Craxi, quello che non c’è nel film Hammamet


La lista della spesa delle Tangenti, tra case a New York e soldi alla tv dell’amante

Nell'ultimo film di Amelio si menzionano le due condanne definitive inflitte all'ex leader del Psi, che però sostiene di essere stato condannato perché "non poteva non sapere", mentre definisce le mazzette come un "peccato veniale". "Prendevamo i soldi per il partito", dice più volte Bettino interpretato da Favino. Dalle sentenze, però, emerge il contrario: l'ex presidente del consiglio era consapevole delle bustarelle incassate. E le usava tra le altre cose per "l’acquisto di un appartamento a New York", "per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv un contributo mensile di 100 milioni di lire" e per "l’acquisto di una casa e di un albergo (l’Ivanhoe) a Roma, intestati alla Pieroni"

“Questa prendila tu, perché se la prendono loro ci sporcano il nostro Paese”. “Questa” è una videocassetta in cui Bettino Craxi racconta la sua verità. “Cose – dice – che tutti gli altri non sanno, cose che neanche immaginano”. E dunque se la verità indicibile dell’ex presidente del consiglio fosse stata diffusa non si sarebbe fatta luce su uno dei periodi più controversi della storia recente. No, si sarebbe “sporcato il Paese“. Finisce così Hammamet di Gianni Amelio, il film sugli ultimi sei mesi di vita di Craxi. Un lavoro molto atteso a vent’anni esatti dalla morte dell’ex leader del Psi. Non potrebbe essere altrimenti visto che si tratta dell’uomo-simbolo di Tangentopoli.

Nel film di Amelio, però, non ci sono mazzette o bustarelle, o almeno non si vedono. Il Craxi del regista calabrese non gestisce denaro, anche se vive in una villa guardato a vista da una dozzina di uomini armati, che evidentemente paga di tasca sua. Amelio cita un paio di volte le due condanne definitive inflitte al protagonista, le ombre delle tangenti e di Mani Pulite fanno capolino sullo sfondo della villa tunisina, ma il problema è che a parlarne è sempre solo lui: Pierfrancesco Favino trasfigurato nei panni del segretario del Psi. L’imputato giudica se stesso e pare assolversi con formula piena. “Prendevamo i soldi per il partito“, dice Favino/Craxi a un vecchio politico democristiano non meglio identificato che va a trovarlo ad Hammamet. “Sì, rubavamo per il partito ma qualcosa attaccato alle mani ci è rimasto“, replica quello.

Stop: nel film di Amelio manca qualcuno che spieghi agli spettatori – magari a quelli più giovani – come quelle mazzette non servissero soltanto per finanziare i partiti ma rimanessero soprattutto attaccate alle mani di chi le prendeva. Le tangenti non erano un “peccato veniale“, come le definisce lo stesso Craxi immaginato da Amelio, ma hanno portato il Paese al tracollo facendo esplodere il debito pubblico e costringendo il governo di Giuliano Amato a fare una manovra da 93mila miliardi, a riformare le pensioni, a prelevare il 6 permille dai conti correnti dall’italiani.

Si dirà: Hammamet è un film, non è un documentario né un’inchiesta giornalistica. Vero, ma la sensazione che si ha alla fine del film è di compassione per uno statista dimenticato e tradito dal Paese che ha servito. Un uomo costretto a morire in esilio. Anche se era una latitanza. Per questo motivo, è forse il caso di ricordare due o tre fatti che dal film di Amelio non si percepiscono per il semplice fatto che non ci sono. Il 19 gennaio del 2000, al momento della morte, Craxi non aveva sulla testa solo “due pesanti condanne che considero ingiuste” (come le definisce il Bettino interpretato da Favino). Si tratta di due sentenze definitive per corruzione e finanziamento illecito a un totale dieci anni di carcere: aveva preso cinque anni e mezzo nel processo per le tangenti Eni-Sai, quattro anni e mezzo per quelle della Metropolitana milanese. In quel momento, però, erano in corso altri procedimenti che vennero estinti per “morte del reo“. Erano quattro in totale e tre si erano già conclusi con condanne: a tre anni per finanziamento illecito (la cosiddetta Maxitangente Enimont), cinque anni e cinque mesi per corruzione (tangenti Enel), cinque anni e nove mesi per il bancarotta fraudolenta (il conto Protezione). In primo grado, invece, Craxi era stato stato condannato – insieme a Silvio Berlusconi – al processo All Iberian: i reati accertati si prescriveranno poi in Appello e quindi in via definitiva in Cassazione.

È un procedimento che al suo interno contiene una serie di smentite a quanto affermato dal leader del Psi: non è stato condannato solo perché “non poteva non sapere”, ma sapeva tutto benissimo, non rubava per il partito, ma soprattutto per sé e per le persone a lui vicine. Come hanno ricostruito Peter Gomez, Marco Travaglio e Gianni Barbacetto nel libro Mani Pulite, 25 anni dopo (Paper First) indagando sui soldi di Craxi i pm hanno accertato l’esistenza di 150 miliardi di lire, movimentati da diversi prestanome. Uno si chiama Giorgio Tradati, era un suo compagno di scuola e sul conto Constellation Financiere e Northern Holding riceve tra il 1991 e 1992 ventuno miliardi di maxi tangente versata da Silvio Berlusconi dopo che la legge Mammì salva le reti Fininvest. Tradati ha raccontato ai pm che tutto era cominciato “nei primi anni ’80” quando “Bettino mi pregò di aprirgli un conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società panamense. Funzionava così: la prova della proprietà consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il procuratore del conto“. Su quel conto arriva un fiume di denaro: nel 1986 erano già 15 miliardi. Poi i conti si sdoppiano: nasce International Gold Coast, affiancato da Northern Holding, messo a disposizione da Hugo Cimenti. “Per i nostri – risponde Tradati – si usava il riferimento ‘Grain’. Che vuol dire grano“. Quindi scoppia Mani Pulite. “Il 10 febbraio ‘93 – continua Tradati – Bettino mi chiese di far sparire il denaro da quei conti, per evitare che fossero scoperti dai giudici diMani pulite. Ma io rifiutai e fu incaricato qualcun altro: so che hanno comperato anche 15 chili di lingotti d’oro…I soldi non finirono al partito, a parte 2 miliardi per pagare gli stipendi”. Sono le paghe dei giornalisti dell’Avanti!. A cosa servì il resto dei soldi?

“Che cos’erano tutti quei prelievi dai due conti svizzeri di Craxi?”, domanda il pm Di Pietro a Tradati. Che risponde: “Anzitutto servivano per finanziare una tv privata romana, la Gbr della signora Anja Pieroni“. “Ma coi soldi di uno dei due conti in Svizzera ci hanno pure comperato case?”. E Tradati: “Un appartamento a New York“. Per il partito? “No di certo“. E con l’altro conto svizzero? “Un appartamento a Barcellona“. La ricostruzione della procura è stata riconosciuta come provata dai giudici del processo All Iberian, sia dal Tribunale che da quelli della corte d’appello di Milano, ed è stata poi confermata dalla Cassazione. Scrivono i giudici del processo di secondo grado che “Craxi dispose prelievi sia a fini di investimento immobiliare (l’acquisto di un appartamento a New York), sia per versare alla stazione televisiva Roma Cine Tv (di cui era direttrice generale Anja Pieroni, legata a Craxi da rapporti sentimentali) un contributo mensile di 100 milioni di lire. Lo stesso Craxi, poi, dispose l’acquisto di una casa e di un albergo (l’Ivanhoe) a Roma, intestati alla Pieroni”. Alla donna Craxi fa pagare anche “la servitù, l’autista e la segretaria”. Il leader del Psi dice a Tradati che bisogna “diversificare gli investimenti”. Il suo ex compagno di scuola eseguiva. Dalle indagini risultano diverse “operazioni immobiliari: due a Milano, una a Madonna di Campiglio, una a La Thuile“. E poi un prestito di 500 milioni per il fratello di Craxi, Antonio e per sua moglie Sylvie Sarda. Insomma non erano solo soldi rubati per finanziare i partiti.

Le sentenze smentiscono anche un’altra affermazione ripetuta più volte dai fedelissimi di Craxi e contenuta anche nel film, e cioè quella del leader del Ps condannato solo perché “non poteva non sapere”. Nella sentenza All Iberian si legge: “Craxi è incontrovertibilmente responsabile come ideatore e promotore dell’apertura dei conti destinati alla raccolta delle somme versategli a titolo di illecito finanziamento quale deputato e segretario esponente del Psi. La gestione di tali conti…non confluiva in quella amministrativa ordinaria del Psi, ma veniva trattata separatamente dall’imputato tramite suoi fiduciari… Significativamente Craxi non mise a disposizione del partito questi conti”. Ma non solo. “Non ha alcun fondamento – continua la corte d’Appello – la linea difensiva incentrata sul presunto addebito a Craxi di responsabilità di ‘posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti sugli stessi compiuti“. Altra convinzione dell’ex leader del Psi, contenuta anche in Hammamet, è che le condanne fossero legate a una sorta di vendetta nei suoi confronti. La corte europea dei diritti dell’uomo, interpellata dai legali dell’ex presidente del consiglio, non la pensa allo stesso modo. Il 31 ottobre del 2001, come ricordava Travaglio qualche tempo fa, i giudici di Strasburgo scrivono: “Non è possibile pensare che i rappresentanti della Procura abbiano abusato dei loro poteri”. Anzi, il procedimento “seguì i canoni del giusto processo” e le accuse ai giudici “non si fondano su nessun elemento concrete. Va ricordato che il ricorrente è stato condannato per corruzione e non per le sue idee politiche“. Non si sa se “sporca” il Paese, ma è una differenza fondamentale.

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