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martedì 11 dicembre 2018

Silvio Berlusconi e la mafia

Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.


Silvio Berlusconi e la mafia: vent'anni di soldi in nero (ma nessuno ne parla)
Le verità scomode sul leader di Forza Italia: dal patto con i boss per assumere ad Arcore il mafioso Vittorio Mangano, al lavoro sporco di Marcello Dell’Utri, condannato perché portava a Cosa Nostra le buste di denaro di Silvio, ogni sei mesi, dal 1974 al 1992. Fatti comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, ma ignorati nella  campagna elettorale
DI PAOLO BIONDANI

C’è una storia di mafia e potere di cui in questa campagna elettorale si parla pochissimo, anche se riguarda il leader politico indicato dai sondaggi come il più probabile vincitore del voto di domenica 4 marzo. E' la storia di mafia, soldi in nero, ricatti, bombe e bugie raccontata nel processo che è costato una condanna definitiva a Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.
Il caso Dell'Utri è una vicenda cruciale nella biografia del miliardario imprenditore milanese. Dell’Utri è amico da una vita di Berlusconi ed è stato il suo braccio destro negli affari fin dagli anni Settanta, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità televisiva. Tra il 1993 e il 1994 è lui che ha creato e organizzato in pochi mesi Forza Italia, il partito-azienda con cui Berlusconi ha conquistato anche il potere politico.
Qui pubblichiamo un'ampia sintesi del caso Dell'Utri, estratta dalla nuova edizione del libro “Il Cavaliere Nero, la   vera storia di Silvio Berlusconi”, scritto da un giornalista de L'Espresso, Paolo Biondani, con il collega Carlo Porcedda, per l'editore Chiarelettere. Un libro che si caratterizza, tra i tanti saggi sul leader di Forza Italia, perché racconta solo i fatti che risultano verificati, comprovati e accertati in tutti i gradi di giudizio, nei processi che hanno portato alle condanne definitive di Dell'Utri per mafia, a Palermo, e di Berlusconi per frode fiscale, a Milano, con la sentenza del primo agosto 2013 che lo ha reso incandidabile.

IL PROCESSO E LA CONDANNA DEFINITIVA DI DELL'UTRI
Marcello Dell’Utri è stato condannato per «concorso esterno» in associazione mafiosa. Non gli si imputa di essere entrato in Cosa nostra con il rituale giuramento di affiliazione, né di essere diventato un «uomo d’onore» di una specifica «famiglia» mafiosa. L’accusa è di aver fornito dall’esterno un sostegno consapevole, determinato, stabile, rilevante, ma nel suo caso strettamente economico, in grado di favorire quell’organizzazione criminale che per decenni ha dominato con il sangue la Sicilia e condizionato l’Italia. È una forma di complicità indiretta, teorizzata per la prima volta dai giudici dello storico pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (…).

Dell’Utri viene rinviato a giudizio a Palermo il 19 maggio 1997, quando è parlamentare di Forza Italia già da tre anni. Con lui finisce a processo un presunto complice, Gaetano Cinà, morto prima del verdetto definitivo della Cassazione. Il processo, lentissimo, è segnato da udienze rinviate per scioperi degli avvocati, assenze o malattie di testimoni o per non interferire con gli impegni politici di Dell’Utri. La sentenza di primo grado viene emessa l’11 dicembre 2004, dopo circa 300 udienze: il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione, giudicandolo complice esterno di Cosa nostra «da epoca imprecisata, e sicuramente dai primi anni Settanta, fino al 1998».

Nel primo processo d’appello la condanna per mafia viene confermata, ma solo per il periodo 1974-1992. Per gli anni successivi i giudici di secondo grado decretano un’assoluzione per insufficienza di prove: i rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa nostra si possono considerare certi, «al di là di ogni ragionevole dubbio», solo fino all’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio.
 La pena è ridotta a sette anni di reclusione.

Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.


La successiva Cassazione riconferma la piena colpevolezza di Dell’Utri per il periodo 1974-1978, considera provati i suoi rapporti con gli esattori della mafia anche nel successivo decennio 1982-1992, ma impone di riesaminare e approfondire, in un nuovo giudizio d’appello, cosa era successo tra il 1978 e il 1982, quando il manager aveva lasciato le aziende di Berlusconi per andare a lavorare con l’immobiliarista siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Nell’appello-bis la nuova corte riapre la questione Rapisarda e rivaluta tutti gli altri dubbi sollevati dalla difesa. Anche questo terzo verdetto di merito ribadisce la colpevolezza di Dell’Utri, che risulta pienamente provata per l’intero periodo 1974-1992, e lo ricondanna a sette anni di reclusione.

La Cassazione approva e rende definitiva la condanna il 9 maggio 2014, ma intanto Dell’Utri è scappato all’estero. La Procura di Palermo accerta che nel frattempo ha venduto una villa a Berlusconi incassando 21 milioni di euro, per metà trasferiti a Santo Domingo. Dell’Utri, dopo una breve latitanza, viene arrestato in Libano ed estradato in Italia, dove il 13 giugno 2014 entra in carcere per scontare la sua seconda condanna definitiva. La prima gli era stata inflitta negli anni di Tangentopoli come tesoriere dei fondi neri di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria dell’impero Fininvest, da lui utilizzati anche per pagare consulenti politici (nome in codice: «operazione Botticelli») e fondare Forza Italia.

VITTORIO MANGANO, UN MAFIOSO AD ARCORE
Il primo pilastro della condanna di Dell’Utri è l’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano: un mafioso di Palermo che nel 1974 va a vivere a casa di Berlusconi. Il suo vero ruolo nella villa di Arcore viene svelato proprio da questo processo.

Mangano è legato a Cosa nostra già dall’inizio degli anni Settanta. (…) Arrestato per la prima volta a Milano il 15 febbraio 1972, per una serie continuata di tentate estorsioni, il 27 dicembre 1974 Mangano torna in carcere per scontare una precedente condanna per truffa, e questa volta viene riammanettato proprio ad Arcore. Il 22 gennaio 1975 viene scarcerato per un cavillo legale e torna a vivere nella villa di Berlusconi, ma non è chiaro per quanto tempo. Di certo il primo dicembre 1975 viene riarrestato nelle strade dello stesso comune brianzolo per possesso di un coltello di genere proibito. Tornato in libertà il 6 dicembre 1975, sceglie ancora una volta la villa di Berlusconi come domicilio legale: è qui che le forze di polizia 
lo vanno a cercare per le notifiche, almeno fino all’autunno 1976.
Nella seconda metà degli anni Settanta Mangano viene bersagliato da numerosi altri provvedimenti giudiziari. Il più grave è l’arresto, eseguito sempre nel territorio di Arcore, nel maggio 1980: Vittorio Mangano viene incriminato nella prima maxi-inchiesta del giudice Giovanni Falcone contro il clan Spatola-Inzerillo. Un’istruttoria fondamentale che, come evidenziano i giudici del caso Dell’Utri, per la prima volta ha svelato «un vastissimo traffico internazionale di eroina e morfina base, trasformata nei laboratori clandestini che il gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo controllava nel Palermitano. Droga che veniva poi smerciata grazie a una fitta rete di trafficanti anche all’estero», in particolare dal clan Gambino negli Stati Uniti.

Le sentenze definitive di quel processo, acquisite nel giudizio contro Dell’Utri, documentano «il ruolo di primo piano rivestito da Mangano quale insostituibile tramite di collegamento nel traffico di partite di droga tra Palermo e Milano». (…)

In questo inquietante spaccato di vita criminale, per i giudici di Palermo «costituisce un dato di fatto inconfutabile» che proprio a metà degli anni Settanta, cioè nel periodo in cui si rafforza il suo legame con Cosa nostra, «Vittorio Mangano è stato assunto da Silvio Berlusconi e si è insediato nella villa di Arcore con tutta la sua famiglia anagrafica» – la moglie, la suocera e le tre figlie – e che questo è successo «poco dopo l’arrivo di Dell’Utri a Milano e per effetto della sua mediazione».

IL PATTO SEGRETO TRA BERLUSCONI E COSA NOSTRA
Nel 1974, quando sposta ufficialmente il proprio domicilio ad Arcore, Mangano è già schedato dalle forze di polizia come un criminale legato alla mafia. Perché affidare proprio a lui, senza nemmeno informarsi sui precedenti penali, il ruolo di garante della sicurezza e gestore della proprietà di Berlusconi? La domanda resta senza risposte credibili fino al giugno 1996, quando viene estradato in Italia e inizia a collaborare con la giustizia un boss mafioso di altissimo livello, Francesco Di Carlo. (…) Di Carlo occupa una posizione unica all’interno di Cosa nostra, negli anni che vedono l’organizzazione criminale accumulare fortune immense con il traffico di eroina, gli stessi in cui inizia a essere attraversata da divisioni destinate a esplodere nella guerra di mafia che, tra il 1979 e il 1982, decreterà il trionfo dei corleonesi con lo sterminio dei vecchi padrini palermitani.

Marcello Dell’Utri. Dichiarato colpevole di aver fatto da mediatore, tesoriere e garante di un patto inconfessabile tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un patto con la mafia durato quasi vent’anni.


Di Carlo infatti è tra i pochissimi a godere della fiducia, e a conoscere i segreti, di entrambi gli schieramenti mafiosi. Amico fin dall’infanzia di Stefano Bontate (chiamato talvolta, per errore, Bontade), per anni il boss più ricco e potente di Palermo, ha anche un fortissimo legame con i corleonesi, alleati del suo capomandamento Bernardo Brusca. Tanto che nel 1976 viene promosso al rango di capofamiglia per diretta volontà di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Intelligente, accattivante, rispettato da tutti, Di Carlo è in grande confidenza con Bontate, che lo chiama «il barone» per la sua eleganza e lo porta spesso con sé agli incontri eccellenti. Ma è anche nel cuore di Riina, che si fa accompagnare da lui in varie trasferte di mafia. (…). Per la sua posizione unica, Di Carlo ha potuto fornire rivelazioni decisive su molti delitti eccellenti, come gli omicidi dei carabinieri Emanuele Basile e Giuseppe Russo, dei giudici Cesare Terranova, Gaetano Costa e Pietro Scaglione, dei giornalisti Mario Francese e Peppino Impastato, nonché del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica.

Di Carlo parla di Dell’Utri fin dal suo primo interrogatorio come collaboratore di giustizia (…): «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…» E qui precisa: «Bontate ha sempre trattato con politici, Teresi era un grosso costruttore, per cui non mi impressionavo che andassero a trattare con vari industriali. (…) A quei tempi era una cosa normale: ognuno, industriale o qualcuno, si rivolgeva a Cosa nostra 
o per mettere a posto un’azienda o per garantirsi».

Prosegue Di Carlo: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti: io avevo giacca e cravatta... Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento, non una villa. (…) Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri».
«Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che “Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti”... Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone... Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: “Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro”. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: “Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello...”. E poi aggiunge: “Le mando qualcuno”.»

Di Carlo chiarisce la frase del boss spiegando che per garantire una piena protezione mafiosa a Berlusconi «ci voleva qualcuno di Cosa nostra», perché Dell’Utri non era affiliato come uomo d’onore. E aggiunge che, appena Bontate ha pronunciato quelle parole, «Cinà e Dell’Utri si sono guardati». Una volta usciti dagli uffici di Berlusconi, prosegue il pentito, «Cinà ha detto a Bontate e Teresi: “Ma qui c’è già Vittorio Mangano, che è amico anche di Dell’Utri”». Di Carlo ricorda che «Stefano non ci teneva particolarmente, però Mangano era della famiglia di Porta nuova con a capo Pippo Calò, quindi era nel mandamento di Bontate. 
Per cui Bontate ha detto: “Ah, lasciateci Vittorio”».

Di Carlo è un testimone oculare di quell’incontro ed è l’unico sopravvissuto tra i boss che nel 1974 siglarono quel patto tra Berlusconi e il vertice mafioso dell’epoca: Cosa nostra proteggerà l’imprenditore milanese, come previsto, affiancandogli l’uomo d’onore indicato da Cinà, d’accordo con Dell’Utri. «Ci hanno messo vicino Vittorio Mangano certamente non come stalliere, perché, non offendiamo il signor Mangano, Cosa nostra non pulisce stalle a nessuno» rimarca Di Carlo, sottolineando l’utilità della protezione mafiosa: «Ci hanno messo uno ad abitare là, a Milano: Mangano trafficava e nello stesso tempo Berlusconi faceva la figura che aveva vicino qualcuno di Cosa nostra... Basta questo in Cosa nostra, perché qualunque delinquente voglia fare qualche azione, si prendono subito provvedimenti».
Cosa nostra non è un ente di assistenza. La sua protezione si paga. E il ricatto comincia subito, tanto da imbarazzare lo stesso incaricato della prima estorsione mafiosa. È sempre Di Carlo a descrivere questo passaggio, di poco successivo all’incontro con Berlusconi: «Tanino Cinà mi dice: “Sono imbarazzato, perché subito mi hanno detto di chiedergli 100 milioni di lire... Mi pare malo”. (…) E io gli dissi: “Ma tu chi ti ’na fari? Tanto sono ricchi... E poi ci hanno voluto”».
L’incontro del 1974 tra l’allora trentottenne Silvio Berlusconi e il superboss Stefano Bontate, così come il contenuto del contratto mafioso mediato da Dell’Utri, è considerato una certezza da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso, in tutti i gradi di giudizio. Le sentenze di merito elencano migliaia di pagine di riscontri oggettivi e testimoniali (…).

SOLDI IN NERO DA MILANO A PALERMO
Da allora, dal 1974, Berlusconi comincia a pagare Cosa nostra. Le banconote passano dalle mani di Dell’Utri e Cinà, nella più assoluta segretezza, e arrivano a Palermo per quasi vent’anni, almeno fino al 1992, spiegano le sentenze definitive.
Con le guerre e gli omicidi di mafia cambiano i capi delle famiglie criminali che si dividono il tesoretto di Arcore. Ma gli effetti del patto restano quelli consacrati nel 1974: soldi in nero in cambio di protezione mafiosa per i famigliari e per le attività economiche di Berlusconi. Sono versamenti periodici, sempre in contanti, che vanno tenuti nascosti. A Milano l’unico depositario del segreto è Dell’Utri, che gestisce un apposito tesoretto: impacchetta le banconote e le consegna nel proprio ufficio al tesoriere mafioso che viene a ritirarle, in genere ogni sei mesi, per portarle a Palermo. Qui i soldi di Berlusconi vengono spartiti tra i clan secondo rigide logiche mafiose.
Il primo a riceverli, in ordine di tempo, è ovviamente Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta nuova, che negli anni Settanta rientrava nel mandamento di Santa Maria di Gesù comandato da Bontate. Mangano può incassare i soldi di Berlusconi proprio perché è un mafioso del clan di Bontate, l’artefice del patto. Ma deve darne una parte al padrino a cui deve rispondere al Nord: Nicola Milano, che è affiliato alla famiglia di Porta Nuova.
Tra il 1979 e il 1980 i corleonesi fanno esplodere la seconda guerra di mafia. Stefano Bontate viene assassinato il 23 aprile 1981. Negli stessi mesi i killer corleonesi uccidono il suo vice, Mimmo Teresi, fatto sparire con il metodo della «lupara bianca». Terminata la «mattanza», il mandamento di Bontate viene smembrato. E la famiglia di Porta nuova guidata da Pippo Calò, che ha tradito i boss «perdenti» passando con i corleonesi, viene elevata a mandamento. Negli anni successivi i soldi versati da Berlusconi attraverso Dell’Utri passano da diverse mani mafiose, ma seguono sempre il tracciato originario: finiscono ancora agli stessi clan, anche se, 
dopo la guerra corleonese, hanno cambiato capi.

Antonino Galliano, affiliato alla Noce dal 1986, è nipote del capomandamento Raffaele Ganci e amico fidato di suo figlio Domenico detto Mimmo. È sicuramente in ottimi rapporti con Cinà, con cui è stato intercettato. Quando decide di collaborare con la giustizia, Galliano rivela che lo stesso Cinà gli ha descritto l’incontro tra Bontate e Berlusconi, dopo il quale il boss «ci manda Mangano» come «garanzia contro i sequestri». «Cinà mi disse che Berlusconi rimase affascinato dalla figura di Bontate: non immaginava di avere a che fare con una persona così intelligente» ricorda Galliano, che grazie alle confidenze di Cinà può rivelare anche come è stato spartito il denaro di Berlusconi prima e dopo la morte di Bontate. «Cinà si recava due volte all’anno per ritirare i soldi nello studio di Dell’Utri... Questi soldi, Cinà li consegnava prima a Bontate e poi, dopo la guerra di mafia, a Pippo Di Napoli, che a sua volta li faceva avere a Pippo Contorno, uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, il quale li portava al suo capofamiglia Pullarà» Pullarà è un altro boss palermitano passato con i corleonesi e per questo premiato con la promozione a capofamiglia. Così, con il trono di Bontate, Pullarà eredita anche i soldi di Berlusconi.

IL TESORO DI SILVIO FINISCE A RIINA
Conclusa la guerra di mafia, dal 1983 la cosiddetta «dittatura» dei corleonesi, come spiegano i giudici, «ha avuto effetti rilevanti anche nei rapporti con soggetti esterni a Cosa nostra», ben visibili anche nel processo a Dell’Utri. Numerosi pentiti parlano del «pizzo sulle antenne televisive» imposto alle emittenti siciliane del circuito Fininvest negli anni Ottanta. Ma dopo una lunga istruttoria, i giudici si convincono che si tratta di livelli diversi. Il pizzo sui ripetitori viene effettivamente pagato alla singola famiglia mafiosa che controlla il loro territorio da alcuni proprietari delle tv locali consorziate e spesso riacquistate dalla Fininvest. Mentre i soldi di Berlusconi, quelli che continuano a passare attraverso Dell’Utri e Cinà, viaggiano su un piano più alto, quello dei boss, e servono ancora allo scopo originario: garantire una protezione generale a Berlusconi e alle sue aziende. A rivelare come vengano spartiti i soldi di Arcore nell’era dei corleonesi sono soprattutto tre pentiti, molto attendibili, della famiglia mafiosa della Noce, 
che è «nel cuore» di Riina e dal 1983 viene promossa a mandamento.

(…) In quel periodo Dell’Utri si lamenta di essere «tartassato dai fratelli Pullarà»: Ignazio, arrestato il 2 ottobre 1984, e Giovanbattista, latitante e «reggente». Il problema è semplice: gli eredi di Bontate chiedono troppi soldi a Berlusconi. All’epoca, probabilmente, la tariffa è già raddoppiata: da 25 a 50 milioni di lire ogni sei mesi. Cinà, rispettando le gerarchie mafiose, informa il proprio capofamiglia, Pippo Di Napoli, che avvisa il suo capomandamento, Raffaele Ganci, che a quel punto riferisce a Riina. Il capo dei capi scopre solo allora che i Pullarà avevano tenuto «riservato» il loro rapporto con i signori della Fininvest, senza dirlo né a lui, né al loro capomandamento Bernardo Brusca. Riina si infuria. E decide di impadronirsi di quel rapporto economico, ma con un movente politico: progetta di «avvicinare Bettino Craxi attraverso Dell’Utri e Berlusconi» (…).

Quanto ai soldi del Cavaliere, «Riina ordina che il rapporto deve continuare a gestirlo Cinà, ma nessuno deve intromettersi». E così «da quel momento Cinà va a Milano un paio di volte all’anno a ritirare il denaro da Dell’Utri, lo consegna al suo capofamiglia Di Napoli, che lo gira al boss Ganci, che lo porta a Riina». Sempre seguendo la rigida gerarchia mafiosa. (…) Un’ulteriore conferma che Riina, nell’impadronirsi del rapporto con Dell’Utri e Berlusconi, non persegue solo interessi economici è il suo diktat sulla spartizione finale del denaro in Sicilia. Riina tiene per sé pochi milioni di lire, probabilmente solo cinque. Il resto viene redistribuito dal boss della Noce, Raffaele Ganci (scarcerato nel 1988), secondo la volontà di Riina, che premia ancora una volta i nuovi capi delle famiglie mafiose di sempre: metà spetta a Santa Maria di Gesù (quindi prima ai Pullarà e poi a Pietro Aglieri), un quarto a San Lorenzo (cioè a Salvatore Biondino, l’autista di Riina) e l’ultima parte alla Noce, ossia a Ganci. I pentiti precisano che Riina ordina di lasciare la loro quota ai Pullarà, dopo averli estromessi dal rapporto con Dell’Utri, per far capire che «non è una questione di soldi». (…)

Tra i riscontri oggettivi c'è anche un documento: in un libro mastro della cosca, che è alla base di una raffica di condanne per estorsioni mafiose, sono annotati – in due rubriche distinte, ma collegate con numeri in codice – la sigla dell’azienda, la cifra pagata e l’anno del versamento. Alla sigla «Can 5» corrisponde questa scritta: «regalo 990, 5000». I pentiti di quella specifica famiglia mafiosa spiegano che si tratta di «cinque milioni versati da Canale 5 nel 1990 a titolo di regalo, cioè senza estorsione». (…)

La conclusione dei giudici è lapidaria: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri che Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia».

Di fronte a queste deposizioni, rafforzate da molti altri riscontri e testimonianze, Dell’Utri decide di attaccare in blocco i pentiti, ipotizzando un complotto: tutti i collaboratori di giustizia, forse manovrati da qualcuno, si sarebbero messi d’accordo per calunniarlo e colpire politicamente Berlusconi. I giudici però ribattono che nessun pentito, quando ha cominciato a parlare, conosceva le versioni degli altri. E soprattutto che ogni collaboratore di giustizia sa e racconta solo un piccolo pezzo di verità, quello custodito dalla propria famiglia mafiosa.

Ogni pentito parla di anni specifici, mentre ignora cosa succede prima o dopo, e quantifica solo la cifra incassata dal proprio clan, che varia nel corso del tempo. In particolare, Di Carlo rivela l’accordo del 1974 e il ruolo di Mangano; gli altri pentiti legati a Bontate confermano i pagamenti fino alla sua morte, nel 1981; Ganci, Anzelmo e Galliano descrivono i pagamenti degli anni Ottanta, nell’era dei corleonesi; Ferrante parla di un periodo ancora successivo, dal 1988 al 1992. Soltanto i giudici possono unire i singoli tasselli di verità e ricostruire un quadro d’insieme, che si rivela rigorosamente in linea con le regole e le logiche di Cosa nostra. Un mosaico completato da riscontri oggettivi, in alcuni casi letteralmente esplosivi. Come gli attentati mai denunciati da Berlusconi.


LE ULTIME PAROLE DI BORSELLINO
Vittorio Mangano viene riarrestato nell’aprile 1995. La Procura di Palermo ha infatti scoperto il suo ruolo di «co-reggente» del mandamento di Porta Nuova e lo accusa tra l’altro di essere il mandante di due omicidi. Durante la sua detenzione, Dell’Utri e altri parlamentari di Forza Italia si mobilitano chiedendo più volte che venga scarcerato per motivi di salute. Il 23 aprile 2000 la corte d’assise di Palermo chiude il primo grado di giudizio condannando Mangano all’ergastolo come boss di Porta Nuova e come mandante e organizzatore di un omicidio di mafia, commesso a Palermo il 25 ottobre 1994. Il boss muore nel luglio 2000, a casa sua, dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari per malattia.
Dell’Utri, nei vari gradi del suo processo, non ha mai attaccato Mangano, anzi è arrivato a definirlo «un eroe», perché «è stato messo in galera e continuamente sollecitato a fare dichiarazioni contro me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, lo avrebbero scarcerato con lauti premi. Ma lui ha sempre risposto che non aveva nulla da dire». Dell’Utri ripete più volte queste parole, che destano scandalo anche nel centrodestra. Nel novembre 2013, però, è Berlusconi in persona a dargli ragione: «Credo che Marcello abbia detto bene quando ha definito Mangano un eroe», perché «quando fu arrestato si rifiutò di testimoniare il falso sui rapporti tra Dell’Utri e la mafia, tra Berlusconi e la mafia». Nella polemica che ne segue, sono in molti a obiettare che per gli italiani onesti gli eroi non sono i mafiosi, ma le persone che hanno combattuto la mafia sacrificando la vita. E a ricordare il duro giudizio su Mangano espresso da Paolo Borsellino poco prima di morire.

Intervistato da due giornalisti francesi nel 1992, pochi giorni prima di essere ucciso con tutta la sua scorta da un’autobomba di Cosa nostra, Borsellino spiega che Mangano, quando fu assunto ad Arcore, era già «una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia». I giudici del processo Dell’Utri acquisiscono la videoregistrazione integrale dell’intervista, in cui il magistrato rivela di essere stato tra i primi a scoprire il ruolo di Mangano in Cosa nostra.

«L’ho conosciuto in epoca addirittura antecedente al maxiprocesso – dichiara testualmente Paolo Borsellino – perché tra il 1974 e il 1975 restò coinvolto in un’altra indagine, che riguardava talune estorsioni fatte in danno di cliniche private palermitane, che presentavano una caratteristica particolare: ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con all’interno una testa di cane mozzata... Mangano restò coinvolto perché si accertò la sua presenza nella salumeria nel cui giardino erano sepolti i cani con la testa mozzata... Poi ho ritrovato Mangano al maxiprocesso, perché fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Porta nuova capeggiata da Pippo Calò, la stessa di Buscetta. E già dal precedente processo Spatola, istruito da Falcone, risultava che Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga delle famiglie palermitane. Arrestato nel 1980, fu condannato per questo traffico di droga a tredici anni e quattro mesi, pena poi ridotta in Appello.»
L’intervista, che i due giornalisti riescono a pubblicare solo alla vigilia delle elezioni del 1994, crea un putiferio soprattutto per una frase, che il magistrato lascia volutamente incompleta: Borsellino accenna a una nuova indagine sui rapporti tra Cosa nostra e le grandi imprese del Nord, citando espressamente Berlusconi. Il magistrato però precisa che non è lui a indagare e rifiuta di fornire particolari, spiegando che se ne potrà parlare solo quando l’inchiesta verrà chiusa, non prima dell’autunno 1992. La morte di Borsellino, con tutti i suoi misteri ancora irrisolti, a cominciare dal vergognoso depistaggio, con un falso pentito, dei primi tre processi sulla strage di via D’Amelio, ha impedito di chiarire, tra l’altro, anche a quale inchiesta si riferisse nella sua ultima intervista.

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DI PAOLO BIONDANI 

Silvio Berlusconi, nel processo di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri, non è mai stato accusato di nulla. Subire estorsioni e non denunciarle non è reato. La vittima del racket rischia di finire sotto accusa solo se commette falsa testimonianza in tribunale, negando di aver subito estorsioni che risultino provate comunque. C’è però un delicatissimo capitolo del processo che lo riguarda personalmente: per molte udienze i giudici cercano di risolvere il mistero delle origini delle fortune di Berlusconi. Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende del Cavaliere, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari. È la questione illustrata dal regista Nanni Moretti, nel film Il Caimano, con la scena dei «soldi che cadono dal cielo» sulla scrivania di Berlusconi.

Durante il lungo processo a Dell’Utri, il tema diventa incandescente, perché diversi pentiti di mafia parlano di presunti investimenti milionari effettuati da boss come Bontate e Teresi proprio tramite Dell’Utri: soldi che, dopo la morte di quei capi-mafia, uccisi dai corleonesi, nessuno avrebbe più potuto rivendicare. La Procura di Palermo apre addirittura un’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri con un’ipotesi di riciclaggio, che alla fine però gli stessi pm devono archiviare: i pentiti possono citare solo presunte confidenze indirette dei boss che sono morti o non parlano, ma non sono in grado di fornire riscontri concreti.

Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende di Berlusconi, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari.


La questione viene ovviamente approfondita anche nel processo a Dell’Utri, che di Berlusconi è stato il braccio destro fin da quei fatidici anni Settanta. Vengono così interrogati i consulenti tecnici dell’accusa e della difesa, incaricati di ricostruire con certezza i flussi dei capitali finiti nelle aziende edilizie e televisive di Berlusconi. Per la Procura, depone un ispettore della Banca d’Italia, Francesco Giuffrida; per la difesa, un professore universitario, Paolo Iovenitti. Lo scontro in aula è durissimo. Esaminati tutti gli atti, già il tribunale conclude che le accuse di riciclaggio non sono provate, per cui nei successivi gradi di giudizio la questione cade. Ma gli stessi giudici avvertono che neppure il processo a Dell’Utri ha chiarito i dubbi sull’origine delle fortune di Berlusconi.

Il collegio presieduto dal giudice Leonardo Guarnotta, l’unico a entrare nel merito dei fatti, riassume così il risultato del processo: «Da parte di entrambi i consulenti tecnici, non è stato possibile risalire, in termini di assoluta certezza e chiarezza, all’origine, qualunque essa fosse, lecita o illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding del gruppo Fininvest». In altre parole, se è vero che non ci sono «prove positive» di investimenti collegabili alla mafia, per cui «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non si possono ritenere riscontrate», è anche vero, scrivono i giudici, che «la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte delle operazioni finanziarie effettuate dalla Fininvest negli anni 1975-84 non hanno trovato smentite nelle conclusioni del consulente della difesa», visto che «nemmeno il professor Iovenitti è riuscito a fare chiarezza, pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest».

Il problema, dibattuto da decenni, è che le aziende di Berlusconi, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state finanziate con capitali provenienti da anonime società estere, di cui tuttora non si conoscono gli effettivi titolari.


Nel tentativo di fugare dubbi così gravi, i giudici di Palermo hanno invitato più volte lo stesso Berlusconi a testimoniare. La prima deposizione viene fissata per l’11 luglio 2001. Berlusconi è presidente del Consiglio, per cui decide di avvalersi della prerogativa legale di essere sentito a Palazzo Chigi. Quindi tutto il tribunale, con avvocati e cancellieri, deve trasferirsi a Roma. La testimonianza però salta all’improvviso, perché Berlusconi oppone «indifferibili impegni di governo». L’intero tribunale torna a trasferirsi a Palazzo Chigi il 26 novembre 2002, ma anche questa deposizione va a vuoto: Berlusconi, in quel momento indagato nell’inchiesta per riciclaggio poi archiviata, preferisce avvalersi della facoltà di non rispondere.

Nella sentenza, che ricostruisce la mancata testimonianza del leader di Forza Italia nel processo a Dell’Utri, in particolare sul tema dell’origine dei capitali delle proprie società, i giudici chiudono il caso con queste parole: «Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice, ma, ad avviso del tribunale, si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, che incide sulla correttezza e trasparenza del suo operato di imprenditore, che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio».

Testo tratto dal libro “Il Cavaliere Nero, 
la vera storia di Silvio Berlusconi”, 
di Paolo Biondani e Carlo Porcedda, ed. Chiarelettere.

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sabato 17 novembre 2018

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giovedì 16 agosto 2018

Tutto crolla tranne noi, Genova tornerai più bella


«Crolla un ponte, Crolla una strada, Crollano i nervi di chi, Consapevolmente, Pensa: Avrei potuto essere li. Crolla una città, Ora più isolata, Crolla la sua economia, Fragile ed insicura. Crolla la fede Nel cielo, Nel destino, Nella vita. Crollano le braccia Di chi sta spalando, Crolla, pesante, Lo sconforto Sulle nostre spalle. Tutto crolla, Tranne noi. Gente dura, Inospitale, Musoni e Testardi. Per chi non ci conosce. Lavoratori, Camalli, Portuali, Carbonai. Artigiani, Banchieri, Capitani e Marinai. Agricoltori sulle rocce. Superbi, Orgogliosi. Fieri. Insiste, Inutilmente, Il cielo Sulla nostra città. Che da acqua, Fango, Macerie e Bombe, Ne è sempre uscita. E allora che cominci, Genova, Domani sarai ancor più bella».


Una poesia, in dialetto genovese, per raccontare la tragedia, e la voglia di rialzarsi. Virale su Facebook dopo la tragedia del ponte Morandi, l’autore è anonimo ma viene ripostata in Rete da genovesi e non solo. Un messaggio di coraggio e speranza. La poesia accompagnata da un'immagine, due tifosi del Genoa e della Sampdoria uno accanto all'altro, le braccia allungate a unire le due parti del ponte crollato.

Ponte Morandi, la poesia virale: 
«Tutto crolla tranne noi. Genova, tornerai più bella». 

Una poesia, in dialetto genovese, per raccontare la tragedia, e la voglia di rialzarsi. Virale su Facebook dopo la tragedia del ponte Morandi, l’autore è anonimo ma viene ripostata in Rete da genovesi e non solo. Un messaggio di coraggio e speranza. La poesia accompagnata da un'immagine, due tifosi del Genoa e della Sampdoria uno accanto all'altro, 
le braccia allungate a unire le due parti del ponte crollato.

Crollo ponte a Genova sull’autostrada A10

Ed ecco il testo: «Crolla un ponte, Crolla una strada, Crollano i nervi di chi, Consapevolmente, Pensa: Avrei potuto essere li. Crolla una città, Ora più isolata, Crolla la sua economia, Fragile ed insicura. Crolla la fede Nel cielo, Nel destino, Nella vita. Crollano le braccia Di chi sta spalando, Crolla, pesante, Lo sconforto Sulle nostre spalle. Tutto crolla, Tranne noi. Gente dura, Inospitale, Musoni e Testardi. Per chi non ci conosce. Lavoratori, Camalli, Portuali, Carbonai. Artigiani, Banchieri, Capitani e Marinai. Agricoltori sulle rocce. Superbi, Orgogliosi. Fieri. Insiste, Inutilmente, Il cielo Sulla nostra città. Che da acqua, Fango, Macerie e Bombe, Ne è sempre uscita. E allora che cominci, Genova, Domani sarai ancor più bella». Su Facebook pubblicata anche in dialetto genovese, è diventata il simbolo della voglia della città di rialzarsi, dopo la tragedia del ponte Morandi.


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mercoledì 1 agosto 2018

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martedì 29 maggio 2018

Ecco Perchè Mattarella NON Vuole Paolo Savona

Paolo Savona

 Stop Euro


PAOLO SAVONA:
 “L’ITALIA DEVE ESSERE PREPARATA AD ABBANDONARE L’EURO”

Paolo Savona, economista in corsa per il ruolo di ministro dell’Economia nel governo M5s-Lega, ribadisce in un libro di prossima uscita le sue perplessità sull’unione monetaria europea e sottolinea che l’Italia deve essere preparata ad abbandonare l’euro.

“Non ho mai chiesto di uscire dall’euro, ma di essere preparati a farlo se, per una qualsiasi ragione, fossimo costretti volenti o nolenti”, scrive Savona nel saggio ‘Come un incubo e come un sogno’, edito da Rubbettino.

“Ritengo che uscire dall’euro comporti difficoltà altrettanto gravi di quelle che abbiamo sperimentato e sperimenteremo per restare”, dice l’economista.

Savona scrive nel saggio che le autorità italiane hanno il dovere di approntare e attuare due diversi piani, “quello necessario per restare nell’Ue e nell’euro e quello per uscire se gli accordi non cambiano e i danni crescono”.

“Invece si insiste nella loro inutilità essendo l’euro irreversibile e si è disposti a pagare qualsiasi costo pur di stare nell’eurosistema”.

L’economista teme che l’Italia possa infilarsi “in un vicolo cieco” e di dover “consegnare la sovranità fiscale alla ‘triade’ (Fmi-Bce-Commissione) se le cose peggiorano, infilandoci nella soluzione greca”.

Lettera Aperta di Paolo Savona a Sergio Mattarella
NO A CESSIONI SOVRANITA’
Caro Presidente,
per il rispetto che porto all’istituzione che presiede e a Lei personalmente, è con molta ansia che Le indirizzo questa lettera aperta riguardante una scelta che considero fondamentale per il futuro dell’Italia: la cessione della sovranità fiscale per far funzionare la...


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giovedì 10 maggio 2018

Bettino Craxi : Tangenti per Miliardi a Domicilio


 Ecco perché fu condannato

Il ministro degli Esteri Angelino Alfano è volato ad Hammamet per ricordare il diciassettesimo anniversario della morte di Bettino Craxi. Il ministro della giustizia Andrea Orlando si dice favorevole a “riaprire la discussione” sulla una “figura importante della sinistra”, pur ammettendone “gli errori”. E il sindaco di Milano Giuseppe Sala, eletto nel centrosinistra, apre alla possibilità di intitolargli una via, che potrebbe essere discussa già lunedì 23 gennaio in consiglio comunale. Proprio mentre si susseguono inchieste e processi per piccole e grandi corruzioni, mentre il numero uno dell’autorità anti-tangenti Raffaele Cantone gira l’Italia per esortare una “rivoluzione culturale” contro il malaffare, mentre si moltiplicano gli studi e i rapporti internazionali su danni e distorsioni inflitti al sistema economico e politico, si allarga la schiera di chi persegue la riabilitazione del segretario del Partito socialista italiano morto da latitante in Tunisia il 19 gennaio 2000.

In quel momento, uno dei politici simbolo della prima repubblica aveva collezionato due condanne definitive per 10 anni di reclusione (5 anni e 6 mesi per la corruzione dell’Eni-Sai e 4 anni e 6 mesi per i finanziamenti illeciti della Metropolitana milanese), più altre condanne provvisorie, in primo e in secondo grado, per circa quindici anni (3 anni in appello per Enimont, 5 anni e 5 mesi in Tribunale per Enel, 5 anni e 9 mesi annullati con rinvio dalla Cassazione per la bancarotta del Conto protezione); e poi due assoluzioni (Cariplo e, a Roma, Intermetro) e una prescrizione (in appello per All Iberian). Non basta. L’allora segretario del Psi e già presidente del consiglio aveva ricevuto tre ordinanze di custodia cautelare, i cui procedimenti al momento della morte non erano stati definiti: Enel, fondi neri Eni e fondi neri Montedison.

Ho raccolto 7-8 miliardi di tangenti sulla Metropolitana e in buona parte 
sono finiti personalmente a Craxi
In questa corsa alla riabilitazione, è utile ricordare i fatti specifici contestati allora a Craxi dai pm di Mani pulite e poi confermati in via definitiva in Cassazione. Sul fronte dei finanziamenti illeciti della Metropolitana milanese, ecco la ricostruzione della vicenda attraverso le parole di Silvano Larini, architetto e reo confesso collettore di mazzette per conto del segretario Psi, che il 7 febbraio 1993 mette fine alla sua latitanza e si consegna alle autorità italiane, 
diventando così un pilastro dell’accusa al leader Psi.

Quello che segue è un estratto del libro Mani pulite, 
la vera storia, di Gianni Barbacetto, 
Peter Gomez e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002).

BETTINO CRAXI, LE TANGENTI MM E LE VALIGETTE DI SOLDI IN PIAZZA DUOMO

Il 7 febbraio, accompagnato dall’avvocato Bovio, Larini si consegna a Di Pietro, che con il capitano Zuliani lo aspetta alla frontiera autostradale di Ventimiglia. Dopo uno spuntino in un ristorante-pizzeria, viene accompagnato a Milano, nel carcere di Opera. Vi trascorrerà quattro giorni, riempiendo decine di pagine di verbali. L’architetto ammette le sue responsabilità. E racconta il suo ruolo di «fattorino delle tangenti» che sgorgavano dal sistema della metropolitana milanese:

Dovevo ricevere il denaro che Carnevale o Prada mi consegnavano e portarlo all’onorevole Craxi. Infatti, a partire dal 1987 e fino alla primavera del 1991, ho avuto modo di ricevere dai predetti 7 o 8 miliardi complessivamente e ogni volta (salvo in un paio d’occasioni in cui li ho consegnati direttamente a Natali) li ho portati negli uffici dell’onorevole Craxi di piazza Duomo 19, a Milano, depositandoli nella stanza a fianco della sua […]. Posavo la borsa o il plico sul tavolo e la Enza [Tomaselli, la segretaria di Craxi] lo ritirava. Non le ho mai detto nulla, alla consegna, perché era assolutamente scontato di che cosa si trattasse […]. Ho raccolto 7-8 miliardi di tangenti sulla Metropolitana e in buona parte sono finiti personalmente a Craxi. Portavo i soldi al quarto piano di piazza Duomo 19. Ero io a confezionare il pacchetto, utilizzando buste marroncine. A volta le posavo sul tavolo della segretaria, a volte le lasciavo sul tavolo della camera di riposo di Bettino.

Natali mi disse che da tempo le imprese operanti nella metropolitana 
erano solite versare del denaro al sistema dei partiti
Fino al 1987 – ricorda – al finanziamento occulto pensava direttamente il presidente della Metropolitana milanese, Antonio Natali. Poi si pose il problema di sostituirlo. «Motivi di opportunità – spiega Larini ai magistrati – sconsigliavano al Psi di riproporlo, in quanto egli era stato inquisito dall’autorità giudiziaria di Milano per fatti di concussione. Natali fu eletto senatore e in tal modo fu “salvato” da un procedimento penale». Craxi e Natali offrirono a Larini la carica di presidente
della Mm, che però rifiutò. «La scelta cadde allora su Claudio Dini», l’architetto che aveva lavorato nello studio di Ignazio Gardella, ma che, a quanto racconta Larini, 
non era considerato affidabile per la gestione delle tangenti:

Natali non aveva molta confidenza con lui e lo considerava un po’ bizzarro e pericoloso per il sistema, dal punto di vista di riscossione del denaro. Mi spiego. Natali mi disse che da tempo le imprese operanti nella metropolitana erano solite versare del denaro al sistema dei partiti e in particolare alla Dc, al Psi, al Pri, al Pci e al Psdi. Questo denaro veniva utilizzato in quegli anni dal Psi per il sostentamento della federazione milanese, ma anche per la cassa nazionale del Psi, all’occorrenza. Infatti ricordo che Balzamo in un’occasione mi diede atto che era a lui pervenuta una parte del denaro proveniente dalle contribuzioni degli imprenditori milanesi, dicendomi: «Meno male che sono arrivati i soldi di Milano, perché altrimenti non potevamo pagare gli stipendi».

Ero al corrente della natura non regolare dei finanziamenti al mio partito. L’ho cominciato a capire da quando portavo i pantaloni alla zuava!
Cosí Natali chiese che fosse Larini a occuparsi delle tangenti, al posto del «bizzarro» Dini: «Mi pregò di essere io la persona che riceveva per conto del Psi il denaro proveniente dalle imprese operanti negli appalti della Mm. Natali mi spiegò che alla materiale raccolta del denaro nei confronti degli imprenditori provvedevano Prada Maurizio [Dc] e Carnevale Mijno Luigi [Pci]». 
Ricevuto l’incarico da Natali, 
Larini si rivolse direttamente all’amico segretario del Psi:

Chiesi informazioni all’onorevole Bettino Craxi su come comportarmi e costui mi disse: «Va bene, occupatene». In altri termini, fu lo stesso Craxi a confermarmi l’incarico di provvedere a raccogliere il denaro proveniente dalla Mm. […] Tutto ciò che prendevo lo portavo sempre nell’ufficio dell’onorevole Craxi e non trattenevo nulla per me. Era un servizio che io rendevo a Craxi per amicizia e per comune militanza politica.

Non tutti, fa capire Larini, erano cosí disinteressati e corretti, e comunque sul giro delle tangenti aleggiava sempre il sospetto che qualcuno ne approfittasse:

Un giorno fui chiamato da Craxi il quale mi disse che Balzamo gli aveva fatto presente che l’onorevole Citaristi, segretario amministrativo della Dc, aveva disposto un’indagine interna nei confronti di Prada, perché sospettava che non tutto il denaro finisse nelle casse della Dc. Anche l’onorevole Craxi, verso la fine del 1989-inizio 1990, mi disse che pure lui aveva saputo che in giro si diceva che le imprese pagavano il 20 per cento del valore degli appalti, e che quindi io venivo «imbrogliato» da Prada e Carnevale. Io spiegai che era impossibile che le imprese pagassero una percentuale del genere, perché si sarebbero poste del tutto fuori mercato […]. In tale occasione pregai l’onorevole Craxi di sollevarmi da un incarico così scomodo; egli mi disse: «Va bene». E, seppure con un anno di ritardo, alla fine mi sostituì con l’onorevole Oreste Lodigiani [cioè con il segretario amministrativo milanese del Psi].

Dopo la morte di Balzamo, venne fuori questo foglietto. 
In quattro anni ha raccolto qualcosa come 186 miliardi”
Larini, dunque, svela anche una parte dei veleni che intossicano i circuiti sotterranei di Tangentopoli: poiché la raccolta era illegale, sui «cassieri» non era possibile alcuna forma di controllo legale. Cosí tra i protagonisti del sistema regnavano la sfiducia e il sospetto che qualcuno approfittasse della situazione, facendo la «cresta» per sé. Cosa che, in diversi casi, è stata anche giudiziariamente accertata. […]

Quello stesso 17 dicembre [1993, al processo contro Sergio Cusani per la maxitangente Enimont], subito dopo Forlani, tocca anche a Bettino Craxi. Ma il suo interrogatorio è tutto un altro film. Un Di Pietro insolitamente calmo e remissivo gli pone la fatidica domanda, se fosse al corrente del finanziamento illegale ai partiti. Craxi si concede una delle sue lunghe pause. Poi spiega: «Né la Montedison, né il gruppo Ferruzzi, né il dottor Sama, né altri, né direttamente, né per interposta persona, a me personalmente hanno mai dato una lira. Diversamente, sia il gruppo Ferruzzi, sia la Montedison hanno versato contributi all’amministrazione del partito: da quando, non saprei, ma certamente da molti anni e fino alle elezioni del 1992». Poi, però, ecco una confessione in piena regola: «Ero comunque al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito. L’ho cominciato a capire da quando portavo i pantaloni alla zuava!».

Di Pietro sorride, raggiante: «C’è qualcuno che, prima di lei, questa mattina, l’ha saputo solo qualche giorno fa». Una piccola rivincita su Forlani. Craxi non solo ammette, ma consegna anche dei documenti. E a un certo punto, con calcolata suspence, estrae di tasca un bigliettino e sibila: «Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, venne fuori questo foglietto scritto a mano, in cui lui aveva fatto un appunto che si riferiva a un quinquennio, con le entrate provenienti da società ed enti. Lui scrive che in quattro anni ha raccolto qualcosa come 186 miliardi. Circa 50 miliardi all’anno». Ovviamente non registrati, quindi fuorilegge. Ecco perché Di Pietro è cosí pacato. Ecco perché non incalza: Craxi, con la sua brutale franchezza, si è messo in trappola da solo. Migliore conferma alle accuse non ci poteva essere. Chi si aspettava uno scontro al calor bianco rimane deluso. […]

Craxi, in seguito, fuori da un’aula di giustizia, racconterà a Bruno Vespa (nel libro Il duello) che per fare politica poteva contare sugli aiuti di tanti amici. «Nel senso che venivano da te e ti chiedevano di quanto avevi bisogno?», gli domanda Vespa. «Ci mancherebbe altro – risponde Craxi. – Non si permettevano. Facevano la fila come si fa dal dentista. Passavano dalla segretaria…».

Tratto da Mani pulite, la vera storia, di Gianni Barbacetto, 
Peter Gomez e Marco Travaglio (Editori riuniti 2002)

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martedì 8 maggio 2018

È morto Ermanno Olmi



Addio al visionario, imprevedibile regista del nostro cinema

L'autore aveva 86 anni, da alcuni giorni era ricoverato ad Asiago, in provincia di Vicenza. Il suo capolavoro rimane 'L'albero degli zoccoli'. Una lunga carriera segnata da titoli dolenti e toccanti come 'Il mestiere delle armi' e 'Torneranno i prati'.

È morto, all'età di 86 anni, il regista Ermanno Olmi. Era ricoverato da alcuni giorni all'ospedale di Asiago. Il grande regista bergamasco, autore di film bellissimi e amatissimi, se n’è andato avendo accanto la moglie e i figli. I funerali, come desiderava e in linea con una vita piena di affetti e amicizie ma riservata, si svolgeranno in forma strettamente privata.
Ermanno Olmi, i film veristi che raccontarono l'Italia rurale


L'uccisione del maiale
L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi
Se dovessimo sintetizzare in un solo aggettivo il grande cinema di Ermanno Olmi sceglieremmo 'imprevedibile'. All'inizio della sua fama (erano gli anni Sessanta), per film come Il tempo si è fermato, Il posto, I fidanzati gli fu applicata l'etichetta di cantore della gente comune, delle piccole cose: definizione non immotivata e anche apprezzabile, in un panorama cinematografico omogeneo e poco permeabile, dopo la fine del neorealismo, alla rappresentazione del quotidiano.




Nei decenni successivi, però, la tavolozza di Olmi si è ampliata fino a includere i toni e i generi più differenti: dal racconto storico all'allegoria, a varie declinazioni della fiaba. In origine il regista bergamasco, classe 1931, fece le sue esperienze nel documentario, curando il servizio cinematografico della Edisonvolta per la quale realizzò decine di titoli: tra i più noti La diga sul ghiacciaio, Tre fili fino a Milano, Un metro è lungo cinque. Si tratta sì di testimonianze dell'attività della società elettrica, come negli auspici dell'azienda committente, però già piene di attenzione per gli sforzi e l'operosità della gente che vi lavora.




Degli anni Cinquanta sono anche alcuni 'corti' a soggetto, come Manon finestra 2 e Grigio (col testo di Pier Paolo Pasolini). Il 1959 è l'anno del primo lungometraggio, Il tempo si è fermato, destinato in origine a essere un documentario e che viene presentato alla Mostra di Venezia. Ancora a Venezia, due anni dopo, Olmi porta Il posto, delicata storia di due giovani al primo impiego in un'azienda milanese ai tempi del cosiddetto boom economico. Segue I fidanzati, ambientato nel milieu operario ma dove si affacciano già preoccupazioni per la crisi dei sentimenti.




Con E venne un uomo (1965), biografia di papa Giovanni XXIII, il regista dà spazio al proprio sentire religioso, però in forma sempre terrena ed eminentemente umana. Dopo alcuni film variamente risolti, già più tinti di metafora (Un certo giorno, Durante l'estate, La circostanza), realizza quello che resta con ogni probabilità il suo capolavoro: L'albero degli zoccoli, fiaba contadina che a Cannes vince una Palma d'Oro di straordinario significato per un film parlato in dialetto bergamasco, recitato da attori non professionisti, tutto affidato all'espressività di gesti atavici.




Circondato da una fama internazionale, Olmi si trasferisce ad Asiago, in provincia di Vicenza, e nel 1982, a Bassano del Grappa, dà vita a Ipotesi Cinema, "bottega del cinema" che collaborerà con la Rai di Paolo Valmarana e sfornerà nuovi registi. Tra questi Roberta Torre che ricorda il Maestro, grande incantatore.




Colpito da una malattia invalidante, e da conseguente depressione, il regista resta lontano dal set per un lungo periodo. Vi torna nella seconda metà degli anni Ottanta con la parabola Lunga vita alla signora! (Leone d'Argento) e con La leggenda del Santo bevitore, Leone d'Oro a Venezia, tratto dal romanzo di Joseph Roth che il critico e amico Tullio Kezich (poi suo co-sceneggiatore nel film) gli ha fatto conoscere. Per questo film Olmi si avvale di attori professionisti come Rutger Hauer e Anthony Quayle; replicherà l'esperienza cinque anni dopo, dirigendo Paolo Villaggio nel Segreto del bosco vecchio, dal romanzo di Dino Buzzati.

Dal 2000 in avanti la filmografia olmiana inanella titoli di assoluta originalità. Intanto l'eccezionale Il mestiere delle armi, opera di respiro rosselliniano sugli ultimi giorni della vita di Giovanni dalle Bande Nere; poi Cantando dietro i paraventi, fiaba pacifista in costume interpretata da Bud Spencer assieme a un cast di attori orientali. Del 2007 è la parabola cristologica Centochiodi, che Olmi dichiara essere il suo ultimo film narrativo prima di dedicarsi esclusivamente al documentario. In realtà dirigerà ancora storie di fiction, col Villaggio di cartone e col dolente, bellissimo Torneranno i prati (2014), ambientato nelle trincee dell'altopiano di Asiago durante la prima guerra mondiale.




Titolare di Leone d'Oro alla carriera e di una quantità di altri premi italiani e internazionali, Olmi è anche l'autore di alcuni libri: il più noto è Ragazzo della Bovisa, ma il titolo più bello resta L'Apocalisse è un lieto fine. Storia della mia vita e del nostro futuro (Rizzoli).




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