Sindiwe Magona (Transkei, 1943) è una scrittrice sudafricana.
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Nata nel 1943 nel Transkei, una zona rurale del Sudafrica, e cresciuta
in una baraccopoli nei pressi di Città del Capo, Gungululu, Sindiwe
Magona passa la sua infanzia con i nonni materni, senza praticamente mai
vedere il padre, che fa l'operaio in città e va a trovare la sua
famiglia raramente, come del resto spesso accade in quegli anni al
sottoproletariato nero. La bambina passa lunghe serate in circolo con
amici e parenti ad ascoltare la nonna che racconta iintsomi, le fiabe
del popolo amaxhosa, o giocando a contare le scintille nel focolare
immaginando che siano tante quanti abayemi (i mediatori che girano di
villaggio in villaggio chiedendo la mano delle ragazze) un giorno si
presenteranno alla porta. A soli 5 anni Sindiwe si trasferisce con la
madre a Città del Capo per raggiungere il padre, e qui - mentre le leggi
del governo razzista si fanno sempre più oppressive, sempre più
liberticide, sempre più ottuse - impara a conoscere i morsi della
povertà, le piaghe dell'arretratezza, le irruzioni continue della
polizia in cerca di alcolici (vietato bere alcol per i neri
sudafricani!), i giocattoli o i fumetti scartati dalle famiglie bianche
dati in elemosina, le ferite della discriminazione sessuale, l'orrore
dell'apartheid. Gli anni passano, arrivano tre figli e un rapporto
disgraziato con gli uomini, ma ci vuole ben altro per fiaccare una donna
come Sindiwe: senza disporre di una residenza fissa, lavorando come
domestica, dovendo occuparsi da single dei tre figli la Magona emigra in
Inghilterra, studia per corrispondenza e si laurea all’Università del
Sud Africa, per svolgere poi un master in Scienze dell’Organizzazione
Sociale del Lavoro presso la Columbia University. L’impegno politico
della Magona viene finalmente riconosciuto nel 1976, quando è chiamata a
Bruxelles a far parte del Tribunale Internazionale per i crimini contro
le donne, e nel 1977, quando è fra le dieci finaliste per il Woman of
the Year Award. Viene assunta come bibliotecaria alle Nazioni Unite a
New York, e nel 1993 l’Hartwick College le assegna un dottorato in Human
Letters e nel 1997 viene accolta nella Foundation of Arts Fellow nella
categoria non-fiction. Da qualche anno ha lasciato New York per tornare
alla sua Città del Capo, e oggi è responsabile di una organizzazione non
governativa che si occupa di donne e, nelle township, provvede a
programmi di istruzione, assistenza familiare e sanitaria, diffondendo e
preservando la cultura e la lingua xhosa: "Anche se per ragioni
commerciali i miei romanzi sono scritti in inglese, lo xhosa - seconda
lingua del Sudafrica dopo lo zulu - è sempre presente nei miei libri,
nel ritmo, nelle parole. Questa è la lingua con cui ho cresciuto i miei
figli e se non la valorizziamo rischia di sparire". In Italia è stata la vincitrice del Premio Grinzane Terra d'Otranto 2007 sezione letteraria.
"Nessuno capisce il trauma di essere neri. Tutti noi, come dimostra
Michael Jackson, vorremmo diventare bianchi. Ha presente come sono lisci
i capelli di Condoleeza Rice? Solo una matta come me va in giro con
questi capelli crespi".
Sindiwe ha la grinta pazzesca e la
consapevolezza di chi è cresciuto in uno slum sudafricano tra difficoltà
che nemmeno riusciamo a immaginare e ha saputo costruirsi una vita da
madre, scrittrice, intellettuale impegnata a favore dei diritti del suo
popolo e delle donne di tutto il mondo. Nel suo libro "Questo è il
mio corpo!" la scrittrice affronta la dura realtà delle malattie
trasmissibili per via sessuale, in primi l'AIDS. A tal proposito dice:
"L'AIDS si può prevenire. Il diritto umano più sacro è il diritto alla
vita. L'amore è grande, il sesso può essere grandioso, ma la vita è la
cosa più importante di tutte. Spero che le donne nere inizino a parlare
tra loro anche di cose intime, che prendano in mano la loro vita. La
diffusione dell’AIDS è una responsabilità individuale. Lo slogan deve
essere: Niente test? Niente sesso." e continua con un atto di accusa
terribile: "In Africa abbiamo un esempio virtuoso di lotta alla
diffusione dell'AIDS: l'Uganda. E so anche che l'Uganda è una nazione
più povera del mio Sudafrica. Qualunque cosa abbiano fatto o stiano
facendo in Sudafrica in questo senso non è abbastanza, punto. Del resto
se da noi il numero dei morti è così spaventosamente alto, vorrà pur
dire che qualcosa non va nelle strategie del Governo o no? Se l'epidemia
ci avesse colpito durante l'apartheid non ci sarebbero state ambiguità,
l'assistenza medica sarebbe stata riservata ai bianchi, ma il mondo non
avrebbe tollerato questa ambivalenza, l'avrebbe chiamata col suo nome:
genocidio. Ora se i cittadini bianchi criticano i politici neri li si
taccia di razzismo, se i cittadini neri criticano i politici neri li si
taccia di antipatriottismo o autolesionismo. [..] Dove c’è una povertà
come quella del Sudafrica abbassare il prezzo dei farmaci
antiretrovirali non è sufficiente: il test dovrebbe essere gratuito e
svolto in segretezza, in certe aree è impossibile garantire il segreto e
infatti la gente non fa il test. Quelli che hanno i mezzi e i soldi per
farlo si spostano lontano dai luoghi nei quali vivono, molti uomini
così fanno terapie antiretrovirali lasciando dietro di loro le donne con
le quali hanno avuto rapporti sessuali. Quindi esistono grandi
responsabilità, è vero, ma il problema nasce nella casa di ognuno di
noi: indipendentemente da ciò che fanno le istituzioni devidecidere tu
se vuoi vivere o no. Spesso non è facile, soprattutto per le donne, ma è
necessario." Altro punto importantissimo della lotta della Magona è
il ruolo delle donne in Sudafrica e delle violenze che esse subiscono:
"La violenza ha vari aspetti: si nasconde a volte dentro l’amore o
dentro la famiglia e la genete si rifiuta di vederla. Scelte anche
innocenti come il nome dei bambini sono frutto di imposizioni, di
arretratezza maschilista. Cose molto gravi accadono e molti le giudicano
accettabili: quando ero piccola io, avere un figlio fuori dalla coppia
rappresentava un terribile scandalo, adesso la media di figli
illegittimi di un sudafricano di 40 anni è tra i 6 e i 7! E’ diventato
raro il contrario, è diventato accettabile. Questo vuol dire abusare del
corpo delle donne ed è terribile per i bambini. Un padre part-time non
serve a niente, un padre serve averlo tutti i giorni. Vogliamo che le
donne sappiano, che le donne capiscano: non è una disgrazia non avere un
uomo. Non è una vergogna stare da sole. Nella cultura africana una
donna senza uomo è vista come mancante di qualcosa, invece non è meno
donna delle altre. Meglio vivere sole che morte con un uomo. Mostratemi la
tomba di una donna uccisa da un vibratore."
(tratto liberamente dall'intervista di David Frati a Sindiwe Magona su mangialibri.com)
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